SULLA ORIGINE DEL NOME DI MONTE CAVO Paolo Galiano  Il gruppo dei Colli Albani nella pianura romana culmina nella cima di Monte Cavo
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Il Monte Cavo, che è stato oggetto di una nostra precedente ricerca in relazione della strada 'anomala'sita nei pressi di Ariccia (Roma), 'ritorna' in questo articolo in cui, per noi, l'Autore analizza le origini della etimologia del curioso nome...                                  

                                                             (di Paolo Galiano)

Il gruppo dei Colli Albani nella pianura romana culmina nella cima di Monte Cavo, ora irta di antenne televisive e telefoniche ma un giorno sede del Tempio di Giove Laziale, il Dio della Lega Laziale che sotto l’egemonia della città di Alba Longa riuniva i popoli latini della regione. Dopo la sconfitta della Lega da parte di Roma, al Giove Laziale venne sostituito il Giove Capitolino, il cui tempio fu eretto da Tarquinio Prisco sul Campidoglio. 
Il Monte Cavo era originariamente un enorme vulcano del diametro di circa 60 km. noto a geologi e vulcanologi come Vulcano Laziale, facente parte di una faglia che inizia a nord con i Monti Sabatini e gli attuali laghi di Vico e di Bolsena e prosegue a sud nella catena dei vulcani Flegrei ( http://www.romacivica.net/tarcaf/natura/geologia.htm
)

Donde il nome di “Monte Cavo”? Una paraetimologia, come vengono definite quelle etimologie che hanno lo scopo di spiegare molto più di quanto esse stesse non dicano, indica l’origine del nome da una contrazione di CAPUT BOUM in CA-BUM: quindi “monte del capo o del teschio bovino”. 
Se a prima vista ciò potrebbe essere correlato con l’uso sacrificale del toro proprio a Giove, poiché questo era l’animale sacro al Dio maggiore del pantheon, in realtà la paraetimologia vuole significare molto di più.
Su quanto ora verremo ad esporre in breve, ho scritto più ampiamente sul sito del Centro Simmetria (www.simmetria.org) in un articolo dal titolo “I teschi cabirici”, al quale rimando chi volesse un maggiore approfondimento sull’argomento.

Alcuni autori latini e in particolare Dionigi di Alicarnasso parlano di migrazioni dei prischi popoli che occupavano il Lazio ancor prima che i Latini, e quindi i Romani, giungessero nella regione, migrazioni che potrebbero essere state causate da profondi rivolgimenti fisici del territorio laziale e in genere della costa tirrenica del Centro Italia causato dalle eruzioni esplosive del Vulcano Laziale e dei suoi confratelli posti a nord e a sud di esso.
Ciò avrebbe causato una deformazione dell’originaria forma dell’Italia, che secondo Plinio il Vecchio sarebbe stata a forma di “foglia di quercia”, trasformandola in quella a forma di “stivale” che noi tutti conosciamo.
La presenza dell’uomo al tempo delle grandi eruzioni vulcaniche, le quali terminarono intorno ai 30.000-20.000 anni fa (vedi http://www.riservadelladuchessa.it/montagne-monti-del-lazio.html ), è attestata dai ritrovamenti nella zona della via Nomentana ai limiti della attuale città di Roma dei resti di due crani noti come “uomo di Saccopastore 1 e 2”, di tipo neanderthaliano con caratteri anzi più primitivi rispetto ad altri reperti scheletrici attribuiti alla stessa specie ( http://www2.comune.roma.it/museocasaldepazzi.htm).
Le popolazioni laziali che migrarono, secondo Dionigi, in Grecia e poi in Turchia fino a giungere in Egitto, secondo autori italiani che hanno scritto tra la seconda metà del XIX e la prima del XX sec., tra i quali Nispi Landi, Ravioli, Di Nardo, portarono i principali elementi della loro civiltà, caratterizzata in particolare dall’uso di erigere costruzioni megalitiche ed in particolare templi costituiti da tre sale, tali da rassomigliare nella forma ad un teschio umano o animale. 
Da qui il nome di Tesqua o Tesca dato ai luoghi sacri antichi, nome che ancora gli scrittori romani usavano: “Certi luoghi silvestri che appartengono a qualche Dio si chiamano Tesca” (Varrone in Prima tellus pag. 18), ove i “luoghi silvestri” alludono certamente ai boschi sacri e alle are sacrificali situate all’aperto (cioè i temenos) utilizzate nella più arcaica antichità, quale fu a Roma l’Ara maxima di Eracle.
Un “teschio umano” lo riscontriamo nella storia e nel nome stesso del Campidoglio: quando Tarquinio Prisco scavò le fondamenta del tempio di Giove Capitolino rinvenne, a quanto riferisce Livio (Ab Urbe condita libri, I 55 pag. 177, ed. Mondadori 1994), un “caput humanum integra facie”, che Ravioli (Prima tellus ed. Il Graal Roma 1988, pag. 19) identifica con il Teschio primigenio, l’edificio a forma di cranio umano eretto dai primi abitanti della regione. Come fa notare il curatore del testo in nota 13 facies è in rapporto con la radice *bha che significa risplendere, da cui, aggiungiamo noi, anche la parola fax, fiaccola. 
Per questo il colle Campidoglio ebbe nome da Caput olim, il “Capo di un tempo” (per Fabio Pittore, ibidem nota 14, il nome gli venne invece dal ritrovamento del cranio di Aulo Vibenna, compagno di Mastarna - Tarquinio Prisco nella presa di Roma da parte degli Etruschi: Caput Auli).
Il termine Teschio indica quindi un luogo di antica sacralità caratterizzato dalla costruzione con grandi massi squadrati, luogo che assume per la sua antichità il carattere di un omphalos, sul quale le età successive ricollocano i loro templi. 

L’aggettivo “cabirico” dato ai Teschi è connesso alle origini stesse della Roma di Romolo, discendente di Enea sopravissuto, come è noto, alla distruzione di Troia: l’eroe troiano portò con sé, a detta degli storici romani, la statua del Palladio e quella dei due Dèi Cabirii, misteriose entità, fabbri divini connessi alla sacralità del ferro e alla profezia, figure centrali dei Misteri di Samotracia. Gli Dèi Cabirii erano stati nell’antichità trasferiti da Samotracia al luogo dove secoli più tardi sarebbe sorta Troia dall’eroe Dardano, il quale a sua volta altri non era che il condottiero di uno dei popoli che avevano dovuto abbandonare l’antico Lazio.
Con Enea gli Dèi Cabirii, simbolo della storia più antica del territorio laziale, ritornarono là dove un giorno sarebbe sorta Roma, che custodì le loro statue e il loro culto dando ad essi il nome di Penàti, come attesta Dionigi d’Alicarnsso, il quale afferma di aver visto sulla Velia ”le effigie degli dèi troiani, che è lecito a tutti vedere: esse hanno un’epigrafe che spiega che sono i Penati. Sono due giovinetti seduti che impugnano lance, opera di antica fattura” (Storia di Roma arcaica I, 68-69).
I Cabiri rappresentano quindi un gruppo di divinità antichissime portate dagli esuli che dal territorio laziale giunsero nel Vicino Oriente, collegate con il fuoco in quanto figli di Efesto e forgiatori di metallo (ricordo del Vulcano Laziale?) aventi una funzione mantica: i Teschi hanno per l’appunto un carattere per lo più augurale (Prima tellus pag. 18), il che confermerebbe la loro connessione con i Cabiri.

Se il Teschio del Campidoglio e le arci megalitiche di Alatri, Ferentino, Segni ed altre città antichissime del Lazio (e non solo) sono da connettere ad un periodo arcaico risalente alle ultime eruzioni del Vulcano Laziale, la loro antichità sarebbe di gran lunga superiore a quella attribuita loro dall’archeologia ufficiale (V–VI sec. a.C.): qui ci limitiamo solo a ricordare che mentre centocinquanta anni fa il Mommsen considerava la data della nascita di Roma nell’VIII sec. a.C. come una favola, ora gli scavi hanno ritrovato tracce di insediamenti nella zona del Campidoglio risalenti al XIII sec. a.C. 
Se aspettiamo altri centocinquanta anni chissà dove arriveremo…


Palestrina 18/05/2007 (Autore:Paolo Galiano)

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                                                 giugno 2007