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(di Fabrizio Manticelli)

  • CENNI STORICI

Il castello della Manta si erge sulle colline che dolcemente degradano dal Monviso verso la pianura torinese, in una cornice di boschi secolari, frutteti e vigneti strappati al clima pedemontano caratterizzato da rigidi inverni e giornate soleggiate, con cieli azzurro turchese lontani dalle nebbie che a volte avvolgono la Valpadana.

Il maniero è intimamente legato, nella sua storia, alle vicende della dinastia dei marchesi di Saluzzo,  feudatari di un marchesato indipendente, al confine con la Francia, alleato del Delfinato, che vedrà la sua apoteosi intorno al XIV e XV secolo, per poi passare sotto i Savoia col Trattato di Lione nel 1601.

Attualmente il castello è gestito dal Fondo per l’Ambiente Italiano che ne ha saputo cogliere a pieno le valenze turistiche, impegnandosi nella conservazione del monumento, nella divulgazione della sua importante storia e rendendolo visitabile in ogni sua parte.

Il maniero è costituito da un nucleo più antico databile intorno al XIII secolo, con un mastio rettangolare poggiato direttamente sulla roccia e da una torre circolare svettante su tutto il complesso.

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Tutt’intorno una serie di merletti di forma ghibellina, ormai inglobati nella struttura muraria dei successivi ampliamenti, lascia intravedere quella che doveva essere la forma originale, forse circondata da un fossato difensivo.

Dopo una breve serie di alterne vicende dovuti a passaggi di proprietà tra nobili locali e conseguenti modifiche del suo aspetto, il castello ritorna stabilmente nelle mani della dinastia dei Saluzzo, vera artefice della sua trasformazione da fortilizio a dimora gentilizia, e sede di una raffinata corte attenta alle mode europee.

In tal senso emerge la figura di Tommaso III di Saluzzo, che fatto prigioniero da Ludovico d’Acaja, dopo la battaglia di Monasterolo ed incarcerato prima a Savigliano e poi a Torino, nel periodo della reclusione compone un romanzo cavalleresco dal titolo “Le Chevalier Errant”, di cui una copia manoscritta si trova presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, e una seconda, gravemente danneggiata, nella Biblioteca Nazionale di Torino.

Il romanzo, iniziato nel 1394, presenta una forma compositiva mista tra versi e prosa, è diviso in tre parti e narra la storia di un cavaliere alla ricerca dell’amore, della gloria e della ricchezza, ma lasciata la sua Saluzzo in cerca di fortuna, si scontra con una realtà ben diversa, trovandosi a lottare per il trionfo della giustizia e del bene sul male. A questo punto il suo cammino si trasforma in una ricerca della virtù secondo i canoni tipici della letteratura cortese e cavalleresca, nel solco della tradizione già riscontrabile nei romanzi del Graal della seconda generazione, per così dire cristianizzata, che si conclude con le opere di Sir Thomas Malory. Nel Le Chevalier Errant non appare il tema della queste du Graal, bensì una successione di incontri e situazioni dal carattere simbolico e soteriologico, fino a sfiorare l’esoterismo. Sono presenti i temi della “corte d’Amore”, del “regno della Fortuna” e della “casa della Conoscenza”, accompagnati da preziose miniature disegnate sul codice parigino, particolarmente interessante quella che si riferisce al salone del castello di “Madame Fortuna” dove sono riuniti nove eroi con armature e relative insegne. Si tratta di eroi dell’era pagana come Ettore, Alessandro Magno e Giulio Cesare; di personaggi dell’antico testamento quali Giosuè, re Davide e Giuda Maccabeo, ed infine di re cristiani come re Artù, Carlo Magno e Goffredo di Buglione.

Nel 1416 Tommaso III, morendo, lascia il castello in eredità al figliastro Valerano detto il Burdo, suo figlio illegittimo ma animato da grandi propositi per rilanciare le sorti del marchesato in un contesto di più ampio respiro europeo. In tal senso lo stesso Valerano trasforma l’antica fortezza in una dimora dal carattere signorile e mondano nei primi decenni del Quattrocento. È così che nasce la “sala Baronale” del castello (nella foto sotto, vista dall'esterno), decorata secondo i canoni stilistici del Gotico Internazionale, con gli affreschi raffiguranti i sette eroi e le sette eroine, con gli stessi personaggi storici descritti nel Le Chevalier Errant, ognuno dei quali viene associato alla dinastia dei Saluzzo, in rigorosa successione cronologia e specularmente accoppiati alle loro mogli, personificate dalle più celebri amazzoni.

A parte il valore artistico del ciclo di affreschi, riconosciuto universalmente tanto da essere citato su tutti i libri di storia dell’arte usati nei licei italiani, appaiono dei grandi temi tipici della tradizione esoterica.

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  •   ASPETTI ESOTERICI

Un primo aspetto a dir poco curioso riguarda i rapporti numerologici ricorrenti tra il romanzo e gli affreschi, infatti lungo l’intero corso dei versi del Le Chevalier Errant compaiono dei numeri che sommati portano al 1395, anno della stesura definiva dell’opera.

Curiosamente anche nel salone baronale, dove sono raffigurati i sette eroi e le sette eroine, a ciascuna figura corrisponde, nella parte inferiore, un cartiglio scritto con caratteri gotici e in lingua franco provenzale che descrive i personaggi insieme a dei numeri romani e in caratteri francesi. Sommando tutti i numeri romani si ottiene 1422, cifra che molti studiosi ritengono essere la data di esecuzione dell’opera. Effettivamente tutti gli storici dell’arte interpellati per la datazione ritengono che i dipinti siano stati eseguiti nel secondo decennio del Quattrocento.

Ad accrescere la credibilità di quest’ultima ipotesi sta anche il fatto che molti studiosi d’arte hanno sempre pensato che il nome dell’autore fosse nascosto da qualche parte, con una classica firma stilizzata, una sigla, secondo un’usanza tipica dell’epoca e di molti pittori.

In particolare, secondo le teorie più accreditate, la firma dell’autore si troverebbe sul bavero dorato della mantellina di Giulio Cesare, dipinto che, non a caso, si trova a sopra la porta di accesso alla sala baronale. Il nome riportato sarebbe quello di Ludovico Jusiayne, più noto con lo pseudonimo di Aimone Duce, pittore molto attivo in Piemonte.

A titolo di cronaca si riportano altri nomi di artisti che la critica ha ritenuto essere i possibili autori.

In primo luogo Giacomo Jaquerio, indicato dagli studiosi italiani e con una datazione dell’opera tra il 1417 e il 1426, oppure, secondo gli esperti francesi, l’avignonese Giacomo Iverny.

Per quel che riguarda invece le scene della fontana della giovinezza, di cui parleremo a breve, gli esperti propendono per Jean Bapteur, oppure per un discepolo di Aimone Duce, o di un allievo della scuola dello Jaquerio, comunque sia sono tutti d’accordo nel fornire una datazione successiva al ciclo degli eroi e delle eroine di un ventennio circa.

Il primo aspetto esoterico dell’intero complesso è senza dubbio quello riferito al ciclo degli eroi  e delle eroine, un principio riconducibile al mito dell’Età dell’Oro, era mitica in cui l’aspetto religioso dell’uomo e del divino erano apertamente manifesti e gli uomini stessi erano praticamente dei semidei. Una condizione olimpica di perfezione, in cui il creatore e il creato si compenetravano secondo un’espressione di potenza tale, da segnare il futuro dell’umanità anche nelle successive epoche di decadenza, dove appunto i personaggi in questione assunsero caratteri eroici. Il fatto stesso che gli eroi maschi siano affiancati alle eroine, i cui nomi sono quelli delle amazzoni più famose, ci riporta alla seconda era dell’umanità, già in decadenza, l’era dell’argento, in cui la religione assume il carattere rituale e sacerdotale, legandosi sempre più alla mistica e all’ascesi, principi femminili e demetrico-lunari della manifestazione primigenia.

Ma chi ha dimestichezza con le discipline esoteriche, sa che il mito delle amazzoni è anche un mito di passaggio, di transizione tra l’età dell’Argento e l’età del bronzo, quest’ultima caratterizzata dal ruolo del guerriero e della virilità violenta, fine a se stessa, col solo scopo del dominio temporale, vaga eco del principio regale supremo dell’epoca aurea.

Non a caso i primi tre eroi provengono da una fase storica che, in senso cristiano, si potrebbe definire pagana, i personaggi rappresentati appartengono già ad una dimensione storica espressione del Kaliyuga, ovvero dell’età del ferro, della decadenza, l’epoca più nefasta e più lontana dalla manifestazione divina, dove dominano i principi materiali e i bassi istinti di potere e di brama. Gli eroi rappresentati richiamano solamente il principio eroico della perfezione raggiungibile dall’uomo, e le donne eroine non hanno più in sé, per dirla alla Bachofen, il principio della virilità olimpica da trasmettere alle successive generazioni.

A questo punto si potrebbe dire che manchi qualcosa, un principio rigeneratore che possa riportare in vita il carattere solare degli eroi, dell’uomo e del creato secondo il mito del sole invicto, rappresentato tramite l’allegoria dei re guerrieri raffigurati nel ciclo pittorico.

Ed è questa la chiave interpretativa del dipinto che conclude degnamente e solennemente il ciclo pittorico presente nella sala baronale, ossia la fontana della giovinezza presente nella parete opposta ai ritratti, la metafora di un ritorno alla gioventù come espressione di potenza e di rinascita del principio solare, eroico, anche se contaminato dalle influenze profane contingenti.

 

  • LA FONTANA DELLA GIOVINEZZA

Lo splendido affresco della fontana della giovinezza del castello della Manta, raffigura una varia umanità di personaggi, teste coronate, popolani, borghesi e prelati affannosamente incamminati verso l’acqua rigeneratrice che ridona la giovinezza e il suo vigore. L’immersione gioiosa e trafelata dei vecchi che una volta in acqua ritornano giovani, risveglia tutte le energie tipiche di quell’età, come dimostrano gli atteggiamenti voluttuosi presenti nel programma iconografico, con tanto di dialoghi in franco provenzale, e le scene di corte e di caccia finali vanno intese come manifestazione del vigore riconquistato, anche in senso solare come si diceva poc’anzi. Ma non c’è solo questo tema tradizionale nella splendida opera che sapienti le mani di grandi artisti ci hanno voluto lasciare, vi è anche l’acqua.

Il mito della virtù delle acque ha radici antiche, nella Genesi è scritto: Dio "separò le acque che stanno sotto il firmamento, dalle acque che sono sopra il firmamento” [Gen. 1.7], e prima ancora della creazione vi è quella misteriosa frase: "le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” [Gen. 1.2].

Tralasciando gli aspetti dottrinali della creazione, che appare più come un atto di separazione, sarebbe opportuno soffermarsi sul simbolismo delle acque primordiali.

Il mito della fontana dell’eterna giovinezza deriva direttamente dalle virtù delle acque descritte nella Genesi, legame confermato dalla patristica, in particolare da Sant’Agostino, secondo cui "sopra il nostro firmamento stanno altre acque immortali e lontane dalla corruzione terrena” [Le Confessioni, Libro 13, cap. XV].

Sempre rimanendo nella sfera delle religioni tradizionali, risulta evidente il riferimento ai riti di purificazione e alle abluzioni rituali; per ricevere la parola di Dio bisogna essere puliti dentro e fuori, nell’anima e nel corpo. Certamente anche nel corpo poiché, secondo quanto si afferma nelle lettere di San Paolo, il corpo del cristiano è tabernacolo dello Spirito Santo.

Il legame con la dimensione del creato e con il mondo fenomenico passa quindi anche attraverso la purificazione del corpo, inteso non solamente come pratica igienica, ma come atto di predisposizione al ricevimento degli influssi benedizionali.

Anche nella tradizione induista si trovano elementi simili, tra i precetti dello Yoga Sutra vi è il principio di Shaocia, ovvero pulizia, sia interiore che esteriore, quindi aspetti esoterici ed exoterici che si fondono in armonia.

Un altro aspetto molto importante da tenere in considerazione è quello dell’acqua lustrale, la rugiada raccolta al mattino dell’equinozio di primavera, data di inizio dei lavori per la realizzazione della Grande Opera.

Nell’affresco del castello della Manta, compaiono tutti questi elementi, dottrinali, esoterici, fino a quelli legati alla tradizione ermetico alessandrina di carattere alchemico, ma sono inevitabilmente contaminati da una concezione profana dovuta alla tarda letteratura cortese.

In tal senso si potrebbe concludere che il ciclo di affreschi della sala baronale fa riferimento a delle interpretazioni tardive di archetipi, che fino a poco tempo prima si presentavano nelle loro espressioni più pure. Facendo un paragone letterario potremmo dire che si è passati dalla concezione del Graal presente nei romanzi di Chretien de Troyes e di Wolfram von Eschenbach, venati da radici celtiche oppure orientaleggianti, alla visione dello stesso calice presente in Thomas Malory, fortemente contaminata da elementi cristianizzati.

In conclusione, il ciclo pittorico del castello, se fosse stato dipinto due secoli prima, si sarebbe concluso con una rappresentazione del Graal,  e in questo senso sacro calice e fontana della giovinezza, a Manta, si equivalgono. La contaminazione cortese e gli elementi profani prendono il sopravvento e si orientano su un tema classico e archetipico, reinterpretato secondo i canoni dell’epoca corrente, pur mantenendo intatti alcuni elementi esoterici della tradizione.

Del resto, se dal costato di Cristo trafitto dalla lancia del centurione romano Longino sono usciti acqua e sangue, raccolti da Giuseppe d’Arimatea nel sacro calice, quell’acqua è sacramento di salvezza e di rinnovamento. Così come la stessa fontana della giovinezza rigenera l’uomo e lo proietta verso una nuova vita, anche il calderone degli dei celti resuscita i guerrieri caduti in battaglia, pronti per abbracciare nuovamente le armi.

 

  • IL MAPPAMONDO MISTERIOSO DEL CASTELLO DELLA MANTA

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Il castello della Manta non è famoso solamente per il ciclo pittorico della sala baronale, l’aurea misteriosa ed esoterica del complesso, si completa con un enigmatico dipinto della seconda metà del Cinquecento, raffigurante un mappamondo che tra i vari continenti presenta, in maniera chiara e ben delineata, i contorni dell’Antartide, con una tonalità di colore verdeggiante, come se fosse non ricoperto dai ghiacci perenni. Il dipinto, assolutamente autentico, si trova sulla volta del Salone delle Grottesche, ampio e raffinato locale facente parte di un successivo ampliamento della dimora signorile, costruito nel primo decennio della seconda metà del XV secolo.

Michele Antonio di Saluzzo, luogotenente del marchesato per conto di Enrico III di Francia e poi di Carlo Emanuele I di Savoia, attento alle mode manieriste provenienti da Roma e alle suggestioni michelangiolesche e raffaellesche, promuove una nuova dimensione signorile della residenza mediante la costruzione di un avancorpo nella parte occidentale del maniero. Nel nuovo corpo di fabbrica fanno bella mostra il Salone delle Grottesche, un elegante corridoio affrescato con le Fatiche di Ercole, che porta alla camera da letto dello stesso Michele Antonio, lo scalone di marmo che conduce ai piani superiori ed infine, un austero cortile d’ingresso col classico porticato alla piemontese.

Il castello è visitabile praticamente in ogni sua parte, l’attenta gestione del FAI ha promosso numerosi interventi di restauro e di conservazione che permettono al pubblico di godere pienamente della magnificenza delle opere d’arte custodite, tra queste il magnifico mappamondo cinquecentesco, completo dell’Antartide, circondato da stupende decorazione di gusto pompeiano.

Il mappamondo è racchiuso all’interno di un ovale nella pare centrale della volta, accompagnato da un altro ovale in posizione simmetrica con amorini, il riquadro al centro raffigura la Caduta di Fetonte, tema mitologico ed esoterico per eccellenza legato al fiume Po e alla pianura Padana (non si dimentichi che il grande fiume passa pochi chilometri a nord), secondo altri studiosi, più profanamente, si tratta della visione del Carro di Fuoco di Ezechiele.

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Da notizie storiche certe risulta che nella seconda metà dell’Ottocento, gli allora proprietari del maniero, i Radicati di Marmorito, per definire meglio i dettagli della mappa, fecero ritoccare il continente sudamericano, che appare in primo piano, secondo la cartografia moderna. Infatti il planisfero descrive il Nord America in maniera alquanto vaga, anche se la penisola della Florida e il Mar dei Caraibi appaiono molto ben delineati, probabilmente, date le conoscenze dell’epoca e la recente scoperta del nuovo continente, anche l’America Latina non era molto rispondente alla realtà. Il ritocco ottocentesco, eseguito per ragioni estetiche e didattiche secondo gli usi dell’epoca, non ha alterato minimamente l’Antartide che risulta essere intonso e di fattura originale.

Le terre descritte nello straordinario dipinto si affacciano sull’Oceano Atlantico in primo piano, nell’Africa è riportato il Nilo, e tra l’Asia e l’Europa il fiume Volga, da notare la presenza di tre grosse isole in corrispondenza delle Azzorre, evidente richiamo al continente perduto di Atlantide.

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Per quale motivo alcune mappe del Cinquecento riportassero l’Antartide prima della sua scoperta resta un mistero, con diverse ipotesi avanzate da molti studiosi, ma ancora più misterioso è il fatto che il continente fosse disegnato in maniera precisa, comprese le aree montuose, e soprattutto con colori verdi indicanti una lussureggiante flora.

La storia ci dice che il primo avvistamento ufficiale del continente dei ghiacci avvenne il 27 gennaio del 1820, quando una spedizione di due navi guidate da Fabian Gottlieb von Bellingshausen, capitano della Marina Imperiale Russa, e da Mikhail Petrovich Lazarev, si avvicinarono fino a 20 miglia dalla costa. Ma il primo sbarco avvenne un anno dopo, per la precisione il 7 febbraio del 1821, ad opera dell’americano John Davis, anche se molti studiosi non condividono questa data.

In verità di un continente al polo sud della terra si è sempre parlato, già in epoca tolemaica si ipotizzava l’esistenza di una Terra Australis secondo una specie di teoria della compensazione, le terre dei continenti posti a nord, Europa, Asia e Nord Africa, avrebbero dovuto essere equilibrate da altrettante terre emerse nell’emisfero australe, da qui la teoria che esistesse un vasto continente a sud, di dimensioni molto più ampie di quelle reali. Infatti, in tutte le mappe fino al XVII secolo, la Terra Australis viene riportata con delle superfici piuttosto grandi, calcolate secondo questa teoria della compensazione.

Certamente il mappamondo di Manta si inserisce nell’ampio contesto delle mappe e dei planisferi misteriosi, basati su antichi documenti ed esplorazioni, di cui esiste una lunga tradizione e una ben scarsa trattazione.

La più celebre mappa che riporta nel dettaglio molte terre, ben prima che queste fossero esplorate, è quella dell’ammiraglio turco Pirî Raïs Ibn Mehmet, chiamato comunemente Piri Reis, grande cartografo che elaborò una carta in due pezzi, risalente al 1513 e ora conservata presso il museo Topkapi di Istanbul.

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In essa sono rappresentate le coste atlantiche della Francia, della penisola iberica e dell’Africa, dalla parte opposta ovviamente quelle del continente americano, con dovizia di dettagli quali la Cordigliera delle Ande, un lama e un puma per quel che riguarda l’America Latina. Ma la cosa più stupefacente è che la carta non si ferma a Capo Horn, ma continua riportando una parte dell’Antartide, sono infatti visibili la Penisola di Palmer, i Monti Muhlig-Hofmann, la Scarpata di  Neumeyer, la Terra della Regina Maud e alcune catene montuose.

Un’altra mappa molto interessante è quella di Hadji Ahmed del 1559 che, oltre a mostrare l’Antartide, presenta un ponte di terra molto largo che collega l’Alaska alla Siberia, come realmente era fino all’ultima era glaciale (fino a quella di Würm).

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Anche nel lavoro di Piri Reis vi sono delle stranezze, ad esempio l’isola di Cuba è solamente rappresentata per metà, nel senso che la parte occidentale viene raffigurata con una serie di isolotti, come realmente poteva essere sempre nell’era dell’ultima glaciazione.

A questo punto appare evidente che tutte le mappe antiche sono basate su un substrato culturale molto più arcaico di quanto si possa pensare, e fanno riferimento a delle civiltà del passato che conoscevano bene le terre emerse in tutte le loro collocazioni e caratteristiche. Si tratta insomma di retrodatare la civiltà di migliaia di anni per arrivare a circa 10˙000 anni fa, e soprattutto di riconoscere che il livello delle conoscenze raggiunte in quell’epoca, che potremmo definire antidiluviana, era altissimo.

Insomma la spiegazione più plausibile, anche se negata dall’archeologia e dalla storia “ufficiale”, sarebbe quella di ammettere l’esistenza di un nucleo primordiale portatore di conoscenza, che avrebbe diffuso la luce della civiltà nei diversi angoli del mondo. D'altronde il mito di Atlantide esprime nella sua essenza, ed indipendentemente dall’esistenza o meno del continente perduto, la possibilità concreta che, prima del diluvio universale, esistesse una popolazione culturalmente molto evoluta, con tutte le implicazioni relative, compresa quella di una conoscenza geografica dettagliata e probabilmente un assetto dei continenti diverso da quello attuale.

Tornando alla questione Antartide, è interessante notare che in tutte le rappresentazioni cinquecentesche che lo riguardano, esso appare come una terra verde, libera dai ghiacciai perenne tutt’ora esistenti, ricco di vegetazione e con delle catene montuose simili a quelle rilevate dagli istituti geografici negli anni cinquanta del Novecento. A conferma di quanto detto si porta come esempio la carta geografica disegnata da Francesco Rosselli nel 1508, dove il continente allora sconosciuto appare verdeggiante, e la mappa di Giorgio Calopodio del 1537.

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Tuttavia la carta geografica che maggiormente stupisce per sua bellezza, per la sua completezza, per l’accuratezza dei dettagli, per la sua sconvolgente precisione, è la Mappa del Mondo di Oronteus Finaeus del 1532, dove l’Antartide, chiamato secondo la definizione tolemaica Terra Australis, appare in tutta la sua chiarezza:.

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Ma nella mappa in questione l’Antartide appare spostato rispetto alla posizione del polo sud, almeno rispetto ai rilievi e alle proiezioni attuali dei meridiani e dei paralleli, in particolare, facendo riferimento alla comparazione effettuata dal grande studioso Charles H. Hapgood nel suo libro “Le Mappe delle Civiltà Perdute”, risulta che nella mappa del Finaeus l’intero continente tende verso il Sudamerica e quindi più a nord. Da ciò si potrebbe dedurre che le conoscenze dei cartografi, relative ai continenti allora ancora inesplorati, fossero state dedotte da antichissime mappe, e soprattutto che dopo l’ultima glaciazione si sia verificato una parziale deriva di alcuni continenti con movimenti di una certa rilevanza.

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Gli studi compiuti da Hapgood sono rivolti all’interpretazione scientifica di questo fenomeno, che si potrebbe definire come una deriva secondaria dei continenti avvenuta nel corso dell’ultima glaciazione, quella di Würm, terminata circa 10˙000 anni fa. Ovviamente durante le fasi di glaciazione le calotte polari sono soggette ad un’espansione seguita da un ritiro che comporta delle pesanti conseguenze non solamente dal punto di vista climatico, ma anche sulla rotazione terrestre.

Il peso stesso delle calotte polari sarebbe distribuito in maniera asimmetrica e la rotazione terrestre imprimerebbe una notevole forza centrifuga sulla crosta terrestre in aggiunta alle masse di ghiaccio. L’ipotesi di Hapgood, descritta nel suo libro “Path of the Pole”, ha suscitato persino l’interesse del noto scienziato Albert Einstein al punto da accettare di scrivere l’introduzione del libro.

La teoria è molto semplice, si tratterebbe di uno slittamento della crosta terrestre e spiegherebbe il continuo alternarsi delle glaciazioni. In pratica la forza centrifuga impressa dalla rotazione della terra agirebbe, in concomitanza con il peso delle masse asimmetriche dei poli, sull’asse di rotazione e sulla stabilità della crosta rigida del pianeta. La superficie della terra scivolerebbe sopra gli strati più interni viscosi e fluidi, il risultato sarebbe quindi un progressivo spostamento delle regioni polari verso gli equatori.

 

 

(Autore: Fabrizio Manticelli. Le foto relative al Castello della Manta sono di duepassinelmistero; le mappe geografiche sono tratte dalla rete e di 'pubblico dominio').

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