In Ictu Oculi-J.V.Leal
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Ermando Danese

  IN ICTV OCVLI

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«La Chiesa e l’Ospedale della Carità» scrive Berthold Volberg «si trovano quasi alla stessa distanza dei due edifici più emblematici di Siviglia: la Torre del Oro e la Giralda, e è il monumento principale del quartiere dell’Arenile. Venendo dal fiume, si vede già la facciata di una bianchezza risplendente e decorata con piastrelle.

Dall’entrata si arriva innanzitutto al patio. Si tratta di un esempio eccezionale di “Patio Doppio”, diviso per arcate di bellezza classica e dominato dai due colori tipici del Barocco sivigliano: rosso scuro e giallo. Dal patio si può entrare nella chiesa, e quasi uno retrocede spaventato. 

Dunque, la prima cosa che si vede sono gli spaventosi “Tramonti” del geniale Juan de Valdés Leal, 1622-1690,: Finis Gloriae Mundi ed In Ictu Oculi. Nel primo quadro, ci presenta, come allegoria della transitorietà di ogni gloria e ricchezza del mondo, i cadaveri semidecomposti di un arcivescovo ed un cavaliere di Calatrava.

Non molto meno terribile si presenta — direttamente di fronte — In Ictu Oculi: la Morte entra in forma di uno scheletro che sorride crudelmente, sotto al braccio porta una falce ed una bara. Ha il piede sinistro sul globo terrestre e con la mano destra spegne una candela, la luce della vita[1]».

Ora, spiegando il primo quadro, l’Adepto tanto discusso, scrive che «la maggioranza degli storiografi dell’arte non hanno visto in questa tela altro che un’allegoria morale: le vanità del mondo non passano la tomba e sono condannate al marciume, fino all’anonimato dell’ossario finale. Questa interpretazione non spiega nessuna delle sottigliezze del quadro, in quanto è la lettura alchemica che bisogna fare di lui; se l’interpretiamo così appare allora come un’opera maggiore del filosofo chimico che sicuramente fu Valdés Leal».

 

Il secondo dipinto amplia e completa il primo al riguardo della tradizione millenaristica. Se nel primo tutto è posto sotto al silenzio del sepolcro, nel secondo appare il mondo esterno devastato dal passaggio della Morte.

«Nell’opera che contempliamo appare la Morte portando sotto al braccio sinistro una bara con un sudario mentre nella mano trasporta la caratteristica falce. Con la mano destra spegne una candela sulla quale appare la frase In Ictu Oculi Nella parte bassa della composizione appaiono tutta una serie di oggetti che rappresentano la vanità dei piaceri e le glorie terrene. Né le glorie ecclesiastiche esulano dalla morte — da quello che appare il bastone, la mitra ed il cappello cardinalizio — né le glorie dei re — la corona, lo scettro o il Tosone — colpendo allo stesso modo tutto il mondo poiché la Morte calca il globo terraqueo.

Neanche la sapienza, le ricchezze o la guerra sono veicoli per scappare alla Morte. Difficilmente la filosofia barocca della vanitas può plasmarsi meglio in una tela. Il fondo in penombra crea un effetto più drammatico e simbolico suggerendo che la Morte esce dalle tenebre ed avanza verso lo spettatore, dotando di maggiore teatralità la scena. Il contrasto tra il nero del fondo e la vivacità del colorito degli oggetti ed i tessuti ha anche un senso allegorico[2]».

In questa seconda dimora filosofale vi campeggia al centro un altare che pare abbia visto tempi migliori, sopra di essa, come spoglie devastate, si trovano i simboli delle glorie ecclesiastiche e delle glorie dei re, tutt’intorno all’altare altre glorie del mondo sono rovesciate, nulla sta più in piedi, evocando, così, quanto predisse il profeta Isaia ( XXVIII, 2):

«Ecco, inviato dal Signore, un uomo potente e forte, come nembo di grandine, come turbine rovinoso, come nembo di acque torrenziali e impetuose, egli tutto getta a terra con violenza».

Questo inviato dal Signore è quel Figlio dell’Uomo annunciato nell’Apocalisse (XIV, 14 e segg.):

«Io guardai ancora ed ecco una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d’uomo; aveva sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: “Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura”. Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta».

È quel Cristo cui spetta i simboli religiosi — come abbiamo visto nel primo quadro — del quale parla l’Apostolo Paolo che «non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse:

Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato.

Come in un altro passo dice:

Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchìsedek[3]».

 

Dipinti in primo piano, per attirare maggiore attenzione, diversi libri sono anch’essi rovesciati, simboleggiano la cultura dominante sia religiosa sia laica.

La loro condanna è dovuta al fatto che sono proprio loro che hanno causato gli effetti nefasti dell’insegnamento ufficiale, come ha scritto il vero Fulcanelli secondo la pubblicazione di J. Laplace.

Sono gli insegnamenti degli intellettuali e dei filosofi del mondo che si studiano ufficialmente e di cui San Matteo (XV, 14) dice:

«Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno in un fosso!».

San Paolo rivela al riguardo:

«Sta scritto: “Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intellettuali”. Dov’è il sapiente? Dove sono i dottori della legge? Dov’è mai il sottile ragionare di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato la follia della saggezza di questo mondo?[4]».

A questo proposito, è da notare come diversi anni fa la Chiesa diffondeva una campagna contro Krishnamurti. Tra le varie comunità circolava una cassetta audio che diceva più o meno queste parole:

«Krishnamurti è una persona seria. Krishnamurti è una persona santa, ecc., ma ha fatto quello che ha fatto Gesù?». 

«A me da quattro anni fa impressione questa cosa» scrive Luca Sofri «che Krishnamurti possa essere stato davvero un uomo perfetto. Più cose leggo di lui, e meno trovo una pecca, una caduta, una piccolezza nel suo pensiero, nelle sue azioni e nella sua coerenza. Persino Gesù che per noialtri è la più brava persona della storia del mondo, persino Gesù quella volta con i mercanti nel Tempio perse la pazienza e gli scappò la mano. Krishnamurti no: e poi possedeva – e possedette per tutta la sua vita – dei tratti di perfezione moderna che a Gesù non furono concessi. Era elegantissimo, conosceva le lingue, e gli piacevano le automobili[5]».

 

Continuando con la cultura dominante, il fisico italiano Antonino Zichichi, com’è noto si è preso l’impegno di divulgare la scienza a livello popolare. A questo proposito racconta:

«Sarebbe stato come predicare nel deserto, mi dicevano i colleghi. Quando si discuteva dell’impatto minimo che la scienza aveva sulla cultura del nostro tempo mi dicevano: “Noi, purtroppo, siamo relegati nelle torri d’avorio. Prova a scendere e vedrai”.

Così è stato. Gli esponenti della cultura dominante non sono venuti meno al loro impegno, attaccandomi spesso in prima persona. Dalla loro parte avevano decenni di menzogne culturali».

Giuliano Toraldo di Francia scriveva pure al riguardo che «le classi dirigenti e dominanti hanno interesse a dare della scienza un’immagine falsa, e non ammette che essa sia trasformata e accolta nella cultura con la C maiuscola, ma a far sì che dalla cultura sia emarginata costantemente».

Se è stato possibile criticare gli scritti di uno scienziato fisico, anche le opere di Fulcanelli non potevano sfuggire alla critica da parte della cultura dominante, nonostante le garanzie di Paolo Lucarelli che scrive che sulle opere di Fulcanelli «calò un imbarazzato silenzio», aggiungendo che «Fulcanelli dimostrava tale ricchezza culturale, anche dal punto di vista profano, da rendere difficile la critica o la derisione».

Fulcanelli, da parte sua, scriveva:

«Certo questo lavoro può essere discusso e criticato poiché è più difficile di quanto si creda a prima vista; ma non pensiamo che ci si potrebbe accusare di aver scritto una sola menzogna».

Domingo Selat[6] sembra aver raccolto la sfida sentendosi in dovere di criticare Fulcanelli. Per prima cosa scrive che «la critica attuale nega la relazione dell’alchimia con gli edifici studiati da Fulcanelli, ma, naturalmente, il valore delle sue opere sorpassa questo aspetto».

Questo significa che sia le cattedrali sia le altre dimore filosofali non hanno nulla a che fare con l’alchimia.

Inoltre, aggiunge che Fulcanelli «sopravvaluta il Medioevo di fronte al Rinascimento che considera un’epoca carente di valori autentici, ma praticamente tutti gli edifici e motivi decorativi che studia sono rinascimentali o posteriori».

Fulcanelli aveva scritto a questo riguardo:

«È probabile che Francesco I, con la sua proibizione dell’uso della stampa, per mezzo delle lettere patenti del 1537, sia stato la causa determinante della mancanza di opere nel XVI secolo, e sia stato anche il promotore incosciente d’una nuova spinta alla simbologia degna del più bel periodo medioevale. La pietra si sostituisce alla pergamena, e i motivi decorativi scolpiti vengono in aiuto alla stampa proibita. Questo temporaneo ritorno del pensiero alle opere monumentali, dell’allegoria alla parabola lapidaria, ci è valso qualche opera brillante, veramente interessante per lo studio delle interpretazioni artistiche dell’antica alchimia».

Per concludere riporteremo pure un passo di Fulcanelli criticato dal nostro autore, nel capitolo Louis d’Estissac:

«Sul pannello di destra si nota un vaso decorato di squame e contenente dei boccioli, della frutta e delle spighe di granturco. Troviamo in questo motivo ornamentale l’espressione geroglifica della vegetazione, della nutrizione e della crescita del corpo nascente. Il granturco, da solo, posto espressamente a fianco dei fiori ed alla frutta, è un simbolo assai eloquente. Il suo nome greco, zea, deriva da zao, vivere, sussistere, esistere».

«È evidente» scrive il critico «che non poté esistere in greco nessuna parola per designare il mais, poiché questa pianta, originaria dell’America fu, come è ben conosciuto, importata in Europa nel secolo XVI. Zea (zeia) era il nome di una varietà di grano. Neanche la relazione etimologica tra entrambe le parole è certo, poiché in greco i termini della radice za - col senso di “vita animale”, alternano con zo —, mai con ze o zei — .Potrebbe difendersi, semmai, una relazione attraverso il composto zeidoros, usato come epiteto di Afrodite, col significato “che dà la vita”; ma questa è sicuramente una relazione metonimica e che ha senso solo se applicata a questa dea».

E Afrodite è, poi, la variante ermetica del vaso squamoso. Tuttavia, riallacciandoci sul fatto incontestabile che il granturco fu importato solo nel XVI secolo, viene da chiedersi: com’è possibile che sia Louis d’Estissac — definito da Fulcanelli «uno degli Adepti più preparati nei segreti ermetici» — sia lo stesso Fulcanelli siano caduti in un simile grossolano errore?

La verità, assai semplice, è che tutti e due facevano riferimento al nome scientifico del granturco (Zea mays).

D’altra parte, i simbolisti, sempre in cerca di novità, avevano immediatamente introdotto il granturco con diritto di cittadinanza fra le figure dell’iconografia ermetica. Fulcanelli ne fa ancora cenno parlando dell’usanza del primo maggio. «In quel giorno» scrive «in parecchie città il clero andava in processione — la processione verde — a tagliare degli arbusti e dei rami con i quali si decoravano le chiese e, in particolare, quelle dedicate al nome di Notre-Dame. Queste processioni sono ormai in disuso oggi, è rimasto solo l’usanza del mais che deriva da quelle processioni e che si perpetua ancora nei nostri villaggi. I simbolisti scopriranno senza difficoltà la ragione di questi riti oscuri se si ricorderanno che Maia era la madre di Ermes».

 

Abbiamo visto che nel primo quadro il tessuto rosso che tappezza la bara del vescovo si disfa in brandelli, simboleggiando la sacralità che inesorabilmente inizia a perdere la religione. L’Adepto scrive che «questa colorazione superficiale nell’Apocalisse di Giovanni è simbolizzata con la Prostituta vestita di scarlatto per la sua somiglianza con la Pietra».

Molto eloquente è al riguardo il passo del profeta Geremia, (XXV, 27 e segg.):

«Tu riferirai loro: Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Bevete e inebriatevi, vomitate e cadete senza rialzarvi davanti alla spada che io mando in mezzo a voi. Se poi rifiuteranno di prendere dalla tua mano il calice da bere, tu dirai loro: Dice il Signore degli eserciti: Certamente berrete! Se io comincio a castigare proprio la città che porta il mio nome, pretendete voi di rimanere impuniti? No, impuniti non resterete, perché io chiamerò la spada su tutti gli abitanti della terra. Oracolo del Signore degli eserciti».

Questa è la descrizione lampante del secondo quadro di Juan de Valdés Leal. La prima ad essere colpita è la città che porta il nome di Dio, ossia le religioni del mondo, come conferma pure il profeta Isaia (II, 20):

«In quel giorno ognuno getterà gli idoli d’argento e gli idoli d’oro, che si era fatto per adorarli, ai topi e ai pipistrelli».

Poi l’umanità intera verrà travolta. Per tutti l’unica certezza è la bara che la Morte reca sotto il braccio.

«La Morte» scrive Fulcanelli «stenderà il suo dominio sulle rovine del mondo, sulle vestigia delle civiltà annientate. E tutte le cose saranno coperte dalle tenebre e immerso nel profondo silenzio dei sepolcri».

Nell’Apocalisse (XVII, XVIII) leggiamo:

«Allora uno dei sette angeli che hanno le sette coppe mi si avvicinò e parlò con me: “Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione”. L’angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra. Scorgendola, mi meravigliai di grande meraviglia.

Dopo ciò, vidi un altro angelo discendere dal cielo con grande potere e la terra fu illuminata dal suo splendore. Gridò a gran voce:

“È caduta, è caduta Babilonia la grande”.

Poi udii un’altra voce dal cielo:

“Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli. Poiché diceva in cuor suo:

Io siedo regina, vedova non sono e lutto non vedrò; per questo, in un solo giorno, verranno su di lei questi flagelli: morte, lutto e fame; sarà bruciata dal fuoco, poiché potente è il Signore Dio che l’ha condannata”.

I re della terra che si sono prostituiti e han vissuto nel fasto con essa piangeranno e si lamenteranno a causa di lei, quando vedranno il fumo del suo incendio, tenendosi a distanza per paura dei suoi tormenti e diranno:

“Guai, guai, immensa città, Babilonia, possente città; in un’ora sola è giunta la tua condanna!”.

I mercanti divenuti ricchi per essa, si terranno a distanza per timore dei suoi tormenti; piangendo e gemendo, diranno:

“Guai, guai, immensa città, tutta ammantata di bisso, di porpora e di scarlatto, adorna d’oro,  di pietre preziose e di perle! In un’ora sola è andata dispersa sì grande ricchezza!”.

Tutti i comandanti di navi e l’intera ciurma, i naviganti e quanti commerciano per mare se ne stanno a distanza, e gridano guardando il fumo del suo incendio: “Quale città fu mai somigliante all’immensa città?”. Gettandosi sul capo la polvere gridano, piangono e gemono: “Guai, guai, immensa città, del cui lusso arricchirono quanti avevano navi sul mare! In un’ora sola fu ridotta a un deserto!

Un angelo possente prese allora una pietra grande come una mola, e la gettò nel mare esclamando: “Con la stessa violenza sarà precipitata Babilonia, la grande città e più non riapparirà.

La voce degli arpisti e dei musici, dei flautisti e dei suonatori di tromba, non si udrà più in te; e la luce della lampada non brillerà più in te; e voce di sposo e di sposa non si udrà più in te.

Dopo ciò, udii come una voce potente di una folla immensa nel cielo che diceva:

“Alleluia! Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio; perché veri e giusti sono i suoi giudizi, egli ha condannato la grande meretrice che corrompeva la terra con la sua prostituzione, vendicando su di lei il sangue dei suoi servi!”.

E per la seconda volta dissero: “Alleluia! Il suo fumo sale nei secoli dei secoli!”».

Ossia, il suo ricordo rimarrà per secoli.

 

Con quale stato d’animo, viene da chiedersi, l’autore dei due dipinti ideò le sue opere gravide di significati, vivendo l’intera vita sotto la secolare inquisizione spagnola.

«Queste pitture stavano nel sottocoro della chiesa della Carità sivigliana ed ancora si trovano oggi in-situ.  

Nel fregio del sottocoro c’era un testo in lettere capitali che raccoglie le parole di Cristo nel Giudizio Finale dirette ai felici: “Ascoltate la parola del Signore: Venite benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi dalla creazione del mondo, perché ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, ero pellegrino e mi ospitaste, ero nudo e mi vestiste, malato e mi visitaste, carcerato e veniste a trovarmi.”[7]».

Questo perché alla fine dell’attuale gloria del mondo vi sarà la gloria del cuore, come è magnificamente simboleggiato nel primo quadro.

Ricordiamo, in proposito, pure le parole di Cristo riportate da San Matteo (V, 5):

 «Beati i miti, perché erediteranno la terra».

 

Spegnendo il candelabro, tutte le cose saranno coperte dalle tenebre ma, afferma Fulcanelli, che «la Morte soltanto tiene le chiavi del laboratorio della Natura. Ombra dispensatrice della luce, santuario della verità, asilo inviolato della saggezza, essa nasconde e sottrae gelosamente i suoi tesori ai mortali timorosi, agli indecisi, agli scettici, a tutti coloro che la misconoscono e non osano affrontarla».

Pertanto, con la fine dell’attuale luce del mondo la Morte assicura che tutto apparirà In Ictu Oculi, a colpo d’occhio, come conferma pure il profeta Isaia (XI, 9):

«Non si commetterà più male, né guasto alcuno su tutto il mio santo monte, poiché il paese è pieno della conoscenza del Signore, come le acque ricoprono il mare».

Le spade cadute ai piedi della Morte ricordano altri importanti passi profetici:

«Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato![8]».


[3]Lettera agli Ebrei, cap. V, vv. 5-6.

[4]Prima Epistola ai Corinzi, cap. I, vv. 19-20.

[8]Isaia, cap. II, v. 4; Michea, cap. IV, vv. 3-4.


 

Nota del webmaster di questo sito: nel ringraziare Ermando Danese,si coglie l'occasione per invitare, chi lo volesse,a partecipare al Forum di discussione su questa tematica di interesse generale e profondo.Grazie

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