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                                                      (di Enrico Pantalone)

La Via della Seta, the Silk Road, è un cammino splendido per chi ama cimentarsi nella ricerca degli usi e dei costumi di comunità spesso ai margini del mondo moderno, ma che conservano intatte prerogative arcaiche di uno splendore ed interesse enorme.

Chiunque di noi sognatori dello spazio e del tempo ha avuto l’idea d’organizzarsi e percorrere almeno una volta nella vita questa antica via carovaniera che unisce il Mediterraneo orientale alle infinite pianure a ridosso delle catene montuose più alte del mondo ed alle splendide vallate cinesi, che arrivano a solleticare l’Oceano Pacifico.

La Via della Seta custodisce forse il segreto della Vita, unisce indissolubilmente le più grandi civiltà del continente euro-asiatico, il vecchio Ecumene, ha permesso loro di scambiarsi non solo manufatti o preziosi, ma idee e culture e di farsi spesso anche la guerra.

Chi seguiva la carovana non era solamente un mercante in cerca di derrate da rivendere, era anche una specie di corrispondente della parte opposta di questo immenso continente euro-asiatico.

Per noi europei, la Via della Seta indubbiamente ha rappresentato qualcosa di più rispetto ai corrispettivi amici di parte asiatica, qualcosa in più non tanto in termini militari e di conquista (esauritisi sostanzialmente con Alessandro Magno), ma in termini di conoscenza di ciò che s’ignorava; per noi è stata anche la Via della Sapienza, la Via della Socializzazione, la Via di un nuovo rapporto con il Tempo che appare diverso perché diverse sono le esigenze per vivere in questi luoghi.

L’europeo, imperialista per natura, tra queste terre ha sempre trovato una tranquillità che altrove non ha mai conosciuto, ha adottato usi e costumi della gente locale e spesso è rimasto a viverci; è strano dover scrivere queste cose pur se la storia altro c’insegna, ma lo vediamo anche dal punto di vista spirituale, infatti mai l’europeo ha tentato di sovvertire il sistema religioso presente, ha aiutato a ritrovare antichi templi che sembravano persi ed ha aiutato a ricostruirli per l’utilizzo pubblico: insomma pare che lungo questa Via tutto debba funzionare, se non perfettamente, almeno bene.

La Via della Seta ripercorre la storia dell’umanità, con le sue varietà linguistiche ed etniche, con le catene montuose così inaccessibili, ma al tempo stesso meraviglia per l’occhio umano, con i grandi laghi che dovevano sembrare mari a coloro che arrivavano da occidente e la varietà di colori che facevano brillare gli occhi degli increduli mercanti o militari europei o mediorientali; tutto questo lungo un cammino che si percorreva lentamente, senza fretta, quasi con gusto inebriante, come potesse essere un’elevazione dell’anima.

Per un viaggio di un mercante dall’Italia o dalla Grecia verso le località mito della Via della Seta come Samarkanda, Bukhara, Tashkent, tanto per citarne i terminali meno onerosi in termini di cammino, costava almeno un paio d’anni d’assenza dalle proprie case e quindi comportava anche una certa scelta di vita per sé e per la propria famiglia, si doveva subire il fascino dell’avventura indubbiamente, fascino per l’ignoto, specie se si era ai primi viaggi, e pensiamo cosa dovesse essere, spingersi sino alla Cina interna!

Questi uomini superavano passi incredibili posti anche oltre i 5000 metri d’altezza e non possedevano certo gli erogatori d’ossigeno o avevano la necessaria preparazione che i trekkisti d’altura moderni possiedono, eppure lentamente, molto lentamente, essi s’adeguavano al clima degli altopiani desertici, oscillante tra il gelido vento ed il caldo insopportabile, facendo sosta nelle città che affiancavano la Via della Seta, città che erano a completa disposizione dei viandanti,  che aprivano le porte senza titubanze, forse con grande ingenuità, ma ardenti di uno spirito collaborativo ed umano mai riscontrato altrove.

Questo faceva colpo sugli europei, essi si sentivano in debito. Ricordo, per esempio al tempo d’Alessandro Magno, quando il suo esercito conquistatore arrivò in questi territori con i soldati pieni di superbia ed alterigia, cambiati completamente nel giro di pochi mesi, presi ad aiutare umilmente nel costruire nuove case, a dissodare i terreni e magari a mettere su famiglia: semplicemente la gente di questi luoghi ha un amore per l’umanità superiore a qualsiasi altra etnia, è una caratteristica endemica in essa, e nemmeno di fronte alle armi che spianavano le case smise di pensare in maniera diversa, vincendo la “guerra” con il solo aiuto della propria forza interiore.

Noi non possiamo certamente soffermarci in maniera pedante ed enciclopedica su tutte le realtà sociali ed antropologiche che si potevano incontrare lungo la Via della Seta, esistono testi e siti specializzati e ben forniti anche di interessantissimo materiale fotografico, però mi piacerebbe far rivivere le sensazioni che un nostro antenato mercante (genovese, veneziano, milanese) poteva vivere lungo il percorso, passato a dorso di un equino o d’ un cammello, quando giungeva in una grande città o quando aveva la possibilità di vedere antichi resti archeologici.

Il nostro “eroe” (perché in effetti lo è più di altri a mio giudizio) normalmente si recava prima a Costantinopoli o ad Alessandria d’Egitto, facilmente raggiungibili via mare, due terminali per il ritrovo di coloro che intendevano intraprendere il lungo cammino, non era un luogo vero e proprio di partenza occidentale per la Via della Seta che di fatto ufficialmente iniziava a Damasco e volgeva verso la carovaniera diretta a Baghdad e Teheran, peraltro ben conosciute e già grandi centri di antiche civiltà oltre che di mercati internazionali dove si scambiava qualsiasi tipo di merce. Nulla di meraviglioso quindi, con ogni probabilità il nostro amico le aveva già visitate diverse volte nel corso della propria vita.

Certamente il primo grande centro che egli incontrava nelle pianure in depressione a sud-est del Mar Caspio era Bukhara (in sogdiano Luogo Fortunato), la quale doveva apparire in tutto il suo splendore architettonico ed archeologico (non a caso l’ Unesco oggi protegge ben 140 monumenti di questa città) agli occhi del visitatore, forse e ben più di una Costantinopoli o d’una Palmyra, considerate l’eccellenza in occidente.

La zona era indubbiamente già ricca di mercanzie, soprattutto di tessuti e di tappeti, dai colori incantevoli e dai prezzi decisamente ridicoli se paragonati ai mercati mediorientali mediterranei.

Lasciando le dolci pianure, fertili e dalle immense piantagioni che facevano sembrare il terreno, nell’immaginario collettivo, come un lungo tappeto dorato (per via delle spighe di grano ovunque), s’arrivava all’altra grande città posta all’inizio della lunga ed irta catena montuosa posta tra il territorio sogdiano e quello bactriano, dal nome ancor più leggendario: Samarkanda.

La leggenda ci tramanda da secoli la tradizionale bellezza di questa città, forse da considerarsi la più bella in assoluto ancora oggi, e dobbiamo immaginare come dovesse apparire agli occhi del nostro amico: fiabeschi arabeschi, tortuose vie d’accesso al centro che spalancavano le porte a edifici costruiti con un' armonia indelebile per la mente, mercati variopinti pieni non solo di tessuti e tappeti, ma anche di ceramiche e di monili d’ogni foggia e prezzo.

Qui s’iniziava a cambiare atteggiamento, s’iniziava a respirare un’aria decisamente diversa, iniziava l’immedesimazione per la percezione della realtà locale, era il primo approccio ad una civiltà diversa, ma innegabilmente trascinante.

Da questo momento la morfologia del terreno assumeva l’aspetto tipico delle steppe desertiche, estensioni di terre più o meno aride e grandi oasi formate dai fiumi provenienti dagli Urali o dalla Siberia. La polvere che si sollevava al passaggio della carovana era talmente impalpabile, a detta dei viaggiatori, da non creare alcun fastidio, quasi restasse sospesa nell’aria, ma avvolgente e protettiva al tempo stesso, una degna compagna per non pensare alla solitudine ed al silenzio. 

Quasi tutti i mercanti, e vogliamo credere che anche il nostro amico fosse tra questi, riprendendo il cammino, facevano una deviazione leggera per andare a visitare Tashkent, non tanto per acquistare delle merci, certo preziose e a buon prezzo, ma anche e soprattutto per vedere questa città che sorge in mezzo ad un’oasi ai piedi dei monti Catka, alla cui irrigazione provvede da secoli il Circik che permette eccellenti coltivazioni in una zona certo non ideale per l’agricoltura, grazie al lavoro secolare degli uomini di questa regione e dei canali che duramente essi hanno costruito, così agli occhi balzava sicuramente il fatto che tutte le costruzioni erano poste lungo il corso di questo fiume ed i suoi numerosi canali sullo sfondo dell’imponente catena montuosa dello Tien Shan.

Ripartendo da Tashkent alla volta della meta prefissa, bisognava dire addio alle pianure o agli avvallamenti, si doveva valicare appunto lo Tien Shan per entrare nello Sinkiang, strada ai limiti della visibilità, magari appena tracciata, spesso ancora innevata che portava, dopo un lungo cammino, soprattutto a dorso di cammello, alla prima città importante che introduceva ad un’altra civiltà, quella cinese: Kashgar.

Spesso il ghiaccio ostruiva ed impediva il passaggio delle carovane ed allora i “nostri eroi” dovevano aprirsi un varco, un pertugio che permettesse loro di transitare in qualche maniera. La manutenzione in questi luoghi dove il grande silenzio la faceva da padrone, era lasciata al caso o al viandante generoso: coloro che erano abituati a vedere le vette dell’Europa occidentale ora si rendevano conto di cosa significasse l’imponenza e la solennità di una vera catena montuosa.

Eppure… eppure non ci si fermava, non ci si arrendeva e si continuava, con meraviglia e stupore, ma si continuava, pensando ad un mondo che mai s’era prima immaginato.

A Kashgar ci si fermava un po’ ovviamente, il tempo di riprendersi dopo le immani fatiche del passaggio tra le impervie montagne. Se ciò avveniva in tarda primavera o in estate, la “scoperta” era un gigantesco mercato unico al mondo dove si vendevano spezie ed erbe d’ogni tipo, introvabili quasi ovunque che confluivano sulla piazza principale senza una logica preventiva, ognuno arrivava e vendeva i suoi prodotti, così era un tempo così è ancora oggi, il colore non era quindi solamente legato ai tessuti, ma anche agli alimenti ed ai pigmenti.

A questo punto Kashgar apriva due carovaniere contrapposte verso la fine della Via della Seta: una a nord, l’altra a sud dello Taklamakan per poi riunirsi nuovamente a Anxi, la meta terminale del lungo viaggio.

La prima carovaniera muoveva senza grosse difficoltà altimetriche discendendo pian piano verso altitudini minori seguendo un itinerario decisamente desertico; la seconda, leggermente più breve, invece costeggiava il Karakorum (con il K2…) e poi l’altopiano tibetano, ma la vegetazione era sicuramente più presente ed a tratti rassicurante per il viaggiatore.

La carovaniera a nord presentava, in alcuni tratti, dei paesaggi spettrali, frutto dell’erosione dei venti gelidi provenienti dal Gobi che s’abbattevano di frequente e che facevano apparire desolante il paesaggio, pur nell’immacolato colore delle rocce (come a Lap Nor). Pensiamo allo stupore del nostro amico nel vedere -per esempio - i resti dell’antica città di Gaochang, in pieno deserto, con le mura battute implacabilmente dal vento e dalla sabbia, le montagne rossastre di Bezeklik o il deserto intorno a Loulan dove si potevano trovare scheletri d’animali messi a mò d’avviso per i viaggiatori.

Spesso in questo tratto di strada si potevano incontrare delle tombe dalle fattezze modeste, probabilmente di carovanieri defunti a causa della stanchezza per il duro viaggio, forse dei pastori: lungo queste piste la vita e la morte trovavano entrambe rifugio, facevano parte della spiritualità giornaliera accettata senza particolari problematiche, ed anche un tumulo, seppur discreto e senza essere particolarmente adornato, aveva una sua grande dignità spirituale. 

La carovaniera a sud non aveva delle grandi città, costeggiando la più alta catena montuosa del mondo era praticamente protetta dai venti gelidi, godeva -grazie ai torrenti - di una discreta vegetazione e si poteva viaggiare spediti dove il terreno lo permetteva. Non raramente s’incontravano monasteri buddisti che offrivano riparo e rifocillamento: sembra non fosse però una via molto praticata dai mercanti europei.

Le due strade erano alternative, ma non di rado si utilizzava, trovando la carovana giusta, quella non percorsa nel viaggio d’andata.

Il cammino durato tanto tempo terminava così ufficialmente ad Anxi, la città del tè, dove il mercante si fermava per un certo periodo, prima di ritornare verso l’Europa o ripartire per andare nell’estremo oriente, cosa peraltro assai rara, più di quanto noi siamo soliti immaginare.

La Via della Seta era e rimane ancora oggi, pur senza l’avventura d’un tempo, un percorso ideale per tracciare la propria sensibilità sociale ed antropologica, per conoscere le vere radici dell’umanità e perché no, per amare ancor di più una natura che attraverso tutto il cammino ci mostra tante e diverse bellezze, tutte ampiamente apprezzate.

 (Autore:Enrico Pantalone-http://www.enricopantalone.eu )

 

 

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                                                                                  maggio 2007