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IMOLA   E   FAENZA:

LORO   POSIZIONE  GIURISDIZIONALE   CIVILE   ED ECCLESIASTICA   DURANTE  IL   PERIODO  ROMANO*

 

(di Giuseppe Sgubbi)

   

 

Indispensabile premessa

  Tre sono gli  scopi di questo lavoro :

 A)  sollevare un “problema”  che dopo un lungo periodo di vivaci discussioni è stato da tempo accantonato;  un accantonamento forse dovuto  al convincimento  che i risultati conseguiti fossero definitivamente accertati,  mentre invece, come vedremo,  sussistono su alcuni aspetti   vari  dubbi, e  molte sono  le domande rimaste senza  risposte.

 B) Mettere in discussione le “prove” riportate dagli studiosi che si sono interessati a questo tema,  in quanto non sempre sono state  convincenti.

 C) Considerato che questo tema è stato affrontato  da autorevolissimi studiosi, fare, seppur con  comprensibile  imbarazzo, alcune ipotesi alternative. 

 Dal titolo si evince che nel corso di questo scritto si parlerà in particolare di confini di epoca romana, infatti solo  individuando tali confini è possibile  determinare la posizione geografica o topografica di Imola e Faenza. Purtroppo la situazione confinistica di tale epoca non è per niente chiara.

 Lo spunto per questa ricerca è nato  da una ricerca sui confini. Nel 2003 scrissi un articolo (1) il cui scopo era quello di determinare il confine fra l’Emilia e la Romagna; ebbene,  avendo dato uno sguardo  ai lavori effettuati da altri studiosi al riguardo di tale tema, avevo notato che  il periodo romano era contrassegnato da un “vuoto” storiografico. Notai la stranezza di questo vuoto, e  pensai  che    probabilmente ciò era dovuto al fatto  che in tale  periodo  non erano segnalati problemi di confini e che  perciò il “silenzio” degli studiosi fosse da addebitare alla mancanza di testimonianze  antiche.  Invece non era cosi.  Verso la fine di detta ricerca  mi resi  conto che il tema confini, pur non essendo mai  ricordato il Sillaro,  era stato oggetto di vivace dibattito;  mi ripromisi quindi  di ritornarci, e questi sono i risultati.    

Una importante precisazione:  il titolo  potrebbe trarre in inganno,  infatti potrebbe far pensare che  questa ricerca  abbia  preso in esame la situazione  di Imola e Faenza  per tutto il periodo romano;  non è cosi, ha riguardato solo alcuni periodi ben precisi, qualcosa nel primo secolo d.C, quasi niente nel secondo, poco nel terzo, molto nel quarto, niente nel quinto.

 In seguito alla riforma voluta  dall’imperatore Diocleziano (circa anno 397), l’Italia si è trovata divisa  in due vicariati:  vicariato annonario con capitale Milano ed il vicariato suburbicario con capitale Roma. Oltre alla divisione sopra accennata l’Italia, si trovava da almeno un secolo  divisa anche in regioni, all’epoca dette “provincie”: Liguria, Emilia, Piceno,  Campania, ecc.  Una  di queste era detta  Flaminia,  il cui territorio corrispondeva più meno alla attuale  Romagna.

Non è chiaro dove fosse esattamente il confine fra i due vicariati;  di sicuro doveva trovarsi dalle nostre parti, infatti dando uno sguardo alle testimonianze antiche, si apprende che per alcune di queste Imola e Faenza erano in vicariato  annonario, per altre erano invece in vicariato  suburbicario.

Si tenga presente che nel corso del IV secolo,  che, come precisato,  è il periodo riguardo al quale    il problema dei confini sarà maggiormente  approfondito, oltre ai civili,  risultano esistenti anche  alcuni confini ecclesiastici,  un insieme di confini non  ben  distinti, che creano non poche difficoltà nel cercare di determinarli con un certo grado di attendibilità.

 Considerato che  le nostre zone sono state interessate da questi confini, si rende necessario rispondere ad alcune domande: dove era esattamente il confine fra vicariato annonario e vicariato suburbicario? In quale di questi vicariati si trovava la Flaminia? Dove era il confine fra Emilia e Flaminia? Di quali di queste regioni facevano parte le città  di Imola e Faenza? Identiche sono  le domande in ambito ecclesiastico alle quali occorrerebbe rispondere.

  Anticipo  il risultato delle mie ricerche: il confine  ecclesiastico, e probabilmente anche il civile, era segnato dal corso del fiume Sillaro, perciò, contrariamente al parere  di tutti gli studiosi, Imola e Faenza  non dipendevano da Milano ma da Roma.  

  Devo premettere che  questo mio radicato  convincimento  non è frutto  di documenti  che altri studiosi non hanno esaminato, ma  che  è una   convinzione scaturita grazie  a spunti ed indizi dovuti  ad una mia “teoria sui confini” che,  nel bene o nel male,  mi ha  condizionato  ed indirizzato per tutto il percorso di queste  intricate ricerche.

Cosa dice questa “teoria”? Se in un posto vi è da tempi remoti un confine  naturale con ben  evidenziate caratteristiche etniche, nel caso che nel corso dei secoli vi fosse la necessità di segnare in zona un confine , sia di ambito civile che ecclesiastico,    si ricorrerà  inevitabilmente a  tale percorso, in quanto, essendo tale confine  ben radicato nella popolazione, meglio  si presta a tale uso.

Il caso vuole che in zona vi sia  un confine naturale che ha le caratteristiche  rispondenti a detta teoria: si tratta del  corso del fiume Sillaro.

Come confine naturale il Sillaro non è secondo a nessun fiume emiliano-romagnolo, infatti sulle due sponde vi si trova una ben  evidenziata  diversità geologica; i gessi  si trovano solo sulla sua riva destra, e detiene pure una   ben accentuata diversità di fauna e di flora; un centinaio di piante e di animali  sono introvabili ad ovest del Sillaro.

 In epoca preistorica, questo  fiume ha tenuto separate alcune popolazioni: Villanoviani, Galli ed altre etnie diverse, non a caso nel corso di una indagine antropologica  fu riscontrato  un diverso indice cefalico  fra le popolazioni che attualmente questo fiume divide.  Il corso di questo fiume disegna il classico confine  etnico.

Mettendo a confronto il corso di questo fiume e quello degli altri fiumi romagnoli,  seguendone  le secolari evoluzioni, abbiamo la dimostrazione che la sopracitata “teoria” offre buone  garanzie di attendibilità; quasi tutti i fiumi romagnoli  in epoca romana o altomedioevale hanno segnato qualche confine, ma poi quasi tutti hanno perso tale funzione, il Sillaro invece  ha continuato ininterrottamente nei secoli a designare  confini, sia civili che ecclesiastici.  Breve elenco dei confini segnati dal Sillaro  dalla antichità ad oggi:  Villanoviani  romagnoli e Villanoviani bolognesi; galli ed umbri; ager imolese e ager  claternate; territorio imolese e territorio bolognese; diocesi imolese e diocesi  bolognese; ducato di Persiceto ed Esarcato; ducati e signorie; Longobardia ed Esarcato; Romagna ed Emilia. Ebbene questi ben riscontrabili dati di fatto mi hanno  fermamente convinto  che il Sillaro, nel corso del  periodo che sto trattando,  nonostante non sia espressamente documentato da nessuna antica  testimonianza, abbia sempre segnato il confine, dell’Emilia  e della  Flaminia,  del  vicariato annonario e suburbicario,  della  metropoli milanese e metropoli romana ed  altri eventuali confini che all’epoca avessero  la necessità di essere segnati in tale zona.

 

Il lettore potrebbe giustamente farmi presente che, date le premesse, mi accingo a scrivere alcune pagine di storia basandomi  molto  su  dei “convincimenti”  e poco su dei   documenti: questo mio comportamento non deve sorprendere più di tanto; non molto diversamente si sono comportati gli studiosi che hanno trattato questo tema. Come è noto questo periodo, cioè il cosi detto Tardoantico, è contrassegnato da una grave penuria di testimonianze, pochi sono i documenti disponibili  e quei pochi dicono cose diverse, conseguentemente, e non poteva essere diversamente, i pareri scaturiti dalle ricerche sono spesso divergenti: divergenti i “convincimenti”, divergenti i  documenti, divergenti le  conclusioni.

Una precisazione “bibliografica”: gli autori e le opere  riportate nelle note, volutamente ridotte al minimo per evitare una eccessiva lunghezza dell’’articolo, sono solo una piccolissima parte della sterminata bibliografia esistente in tema, infatti per fare questa ricerca ho consultato oltre 600 opere, quasi tutte scritte in italiano. Gli studiosi eventualmente interessati  a  prendere visione di tutta la bibliografia possono consultare l’apposito opuscolo facilmente reperibile in alcune biblioteche.(2 )   

Per comodità di esposizione ho ritenuto opportuno dividere  questo lavoro  in vari capitoli:  Situazione da Augusto a Diocleziano, situazione civile nel IV secolo, situazione ecclesiastica nel IV secolo,  lettera di  S.Ambrogio al vescovo Costanzo.

 

SITUAZIONE DA AUGUSTO  A DIOCLEZIANO

(dal I al III secolo)

 

Uno solo è il tema che sarà approfondito nel corso di questo capitolo: l’esistenza o meno in epoca romana  di una regione  denominata Aemilia,  territorialmente corrispondente alla regione emiliano-romagnola.

 Come è noto, dai primi tempi  della dominazione romana fino all’epoca di Augusto, il territorio corrispondente alla attuale regione Emilia- Romagna, pur essendo con vari nomi spesso ricordato: Cispadana, Ager Boico, Gallia Togata, Provincia Ariminum, non aveva confini ben definiti,  perciò  sorvoliamo su  questi primissimi tempi.

 Al seguito della nota divisione  in regioni voluta dall’imperatore romano Augusto, il  territorio  corrispondente attualmente alla regione emiliano- romagnola, come tutti gli studiosi concordano, corrispondeva alla regione  VIII°.  A parere della stragrande maggioranza degli studiosi, salvo lodevoli eccezioni, nel corso del I° secolo d.C. il territorio della VIII° regione augustea avrebbe preso il nome di Aemilia.   Questi  portano a sostegno della loro tesi  la testimonianza  di Marziale. Come è noto  verso   l’88 d.C  il poeta romano Marco Valerio Marziale si  trovava  a Forum Corneli (Imola) e nel corso di tale permanenza scrisse  alcuni dei suoi famosi epigrammi.  Ebbene, a parere dei suddetti autori,  alcuni suoi versi testimonierebbero l’esistenza, già a quel tempo, di una regione chiamata  “Aemilia”.

Vediamo che cosa ha detto Marziale(3). Nel libro III,4,  spedendo a Roma il suo terzo libro,  lo accompagna con le seguenti  frasi: “vai a Roma , mio libro; se donde  tu venga ti chiedono, dalla regione dirai, che la via Emilia attraversa.” Pur prendendo atto che  le espressioni poetiche non sono  mai facilmente decifrabili,  il senso  di queste parole dovrebbe essere  che il poeta si trovava in quel periodo in una regione, non dice quale,  attraversata da una via chiamata Emilia, non si vede  come questa frase possa essere  interpretata diversamente. Se una persona si trova in una regione attraversata da una via e nomina tale via, non è affatto detto che  intenda  dare il nome della regione.  Se Marziale, ipoteticamente, invece di trovarsi ad Imola,  si fosse trovato in una città umbra, oppure in una città toscana, regioni  attraversate rispettivamente  dalle vie Flaminia e Claudia, e avesse spedito un libro accompagnandolo   con le stesse parole, unica differenza  il nome delle vie che attraversavano le   suddette regioni, avremmo forse dedotto  con sicurezza che le due regioni si sarebbero chiamate una Flaminia  e l’altra Claudia?  Perciò  voler ad ogni costo ricavare dalle frasi del III libro di Marziale  la sicura esistenza di una regione chiamata Emilia, mi pare una forzatura.

Esistono invece  altre testimonianze di  Marziale che potrebbero essere interpretate in vari modi. Nel libro VI 85,6, avendo il poeta appreso la morte di Rufo, suo amico bolognese, e sapendo che  per  questa morte   molte persone piangono dice: “Lacrime versa o Bologna orbata ahimè del tuo Rufo e per tutta l’Emilia il cordoglio risuona.”

Pure nel libro X 12,1, Marziale, rivolgendosi all’amico  Domizio, che sta partendo per le vacanze, riporta la parola Emilia: “Tu per le terre dell’Emilia andrai “.   Effettivamente  in questi ultimi due epigrammi, la parola Emilia  può essere interpretata ”regione Emilia”, ma, considerato che pochi mesi prima Marziale,  volendo indicare un territorio, aveva detto attraversato dalla via Emilia, non si può affatto escludere che anche nel VI° e nel X° libro abbia voluto intendere la stessa cosa.  In Marziale compare più volte la parola “Emilia” e la parola” regione”, ma non compare mai  la frase  regione chiamata Emilia”, una frase che avrebbe, senza alcun dubbio,  reso comprensibili le sue testimonianze.   Alla luce di queste note non mi pare  si possano  riportare  i passi di Marziale come “sicura testimonianza “ che già nel I° secolo d.C. “tutto” l’attuale territorio  della regione Emiliano-Romagnola era chiamato Emilia, perciò almeno  il proverbiale dubbio dovrebbe rimanere.   Si tenga  inoltre presente che un decennio prima, Plinio il Vecchio,  (Hist. Nat. III 115) il più famoso storico  della romanità, descrivendo accuratamente la VIII° regione Augustea (città ,fiumi, ecc), non dice che  tale regione aveva preso il nome Emilia, se così fosse stato, non avrebbe mancato di riferirlo. Perciò è mia ferma convinzione che nel corso di tutto il periodo romano  non sia mai esistita una regione Aemilia   interamente corrispondente  al territorio della  Emilia-Romagna. Per essere più chiaro: quando appare per la prima volta il nome di una regione detta Aemilia ,  in contemporanea sarebbe  apparsa anche  una regione chiamata Flaminia, conseguentemente per Emilia si intendeva  solamente il territorio da Bologna in sù e per Flaminia da Imola   verso le Marche.  Continuiamo l’indagine su questo tema cercando di datare  la sicura   esistenza di due regioni denominate  Emilia e Flaminia.

Nel corso del II secolo d.C. ma in date incerte ( per qualcuno  verso il 170, per altri verso il 160) le nostre due regioni si trovano ricordate in  alcune iscrizioni. Si tratta di  personaggi, in genere magistrati, che avevano governato  provincie o regioni, ne  troviamo uno che verso il 166 governava la    Aemiliae et Flaminia, (C.I.L.VIII, 5354), ed un altro che governava  Flaminiam et Umbriam (C.I.L. XI 377).   Da queste iscrizioni si apprende  che un’ ampia zona è stata fatto oggetto di una divisione amministrativa e da questa sono nate alcune regioni fra cui la Emilia e la Flaminia.

Vediamo di indagare   come la Flaminia abbia  potuto ricevere  tale  denominazione.

Considerato che  l’Emilia ha preso il nome dalla via che l’attraversa, non si può escludere che altrettanto sia accaduto anche al riguardo della Flaminia.

   Il Susini(4) è convinto che anticamente  una via che convenzionalmente  chiama Flaminia II°,  proseguisse  da Rimini verso il  cuore della pianura, valicasse il Rubicone nei pressi del Compito, e raggiungesse Pisignano, San Pietro in Vincoli, San Pancrazio, Russi,  Bagnacavallo, Lugo, Massa Lombarda ed il Delta Padano.  Nereo Alfieri(5)  ha rilevato in maniera  persuasiva che  G. Flaminio nel 187  ha costruito una via Flaminia detta Flaminia minor, che da Arezzo,   seguendo  il crinale fra il Sillaro e l’Idice, arrivava a sud di  Claterna.  Per il Susini(6)  detta via, cioè la Flaminia  minor, proseguiva il suo percorso verso  il guado del Po di Primaro,  congiungendosi alla Flaminia prima accennata proveniente da Rimini.   Nella carta geografica che il Coronelli(7) diede alle stampe nel 1707,  appare ben evidenziato il tracciato di una via chiamata Flaminia, che,  partendo poco a ovest di Imola, arriva al mare Adriatico. Non solo, anche qualche tratto romagnolo della via Emilia era detta Flaminia; questo si deduce da un documento  riportato dal Lanzoni(8) riguardante la città di Forli (in liviensis  foris  non longe per Flaminiam viam,) e da alcune cronache imolesi del diciottesimo secolo(9). Da queste  notizie si ricava che la antica regione Flaminia  era interessata da vari percorsi di una strada chiamata Flaminia,  perciò   è possibile che   il nome della regione derivi da detta via. Non si può  comunque neanche escludere che il nome Flaminia  sia stato dato  da popolazioni provenienti dall’Umbria che, sia in  epoca preromana che romana, si sono stanziate in Romagna; si tratta di popolazioni che avendo abitato  nella valle Tiberina,  arrivate nelle nostre zone, avrebbero fra l’altro dato  al fiume Senio il nome Tiberiaco.(10) Ho già fatto presente in premessa, che sono fermamente convinto che  il confine fra la Emilia e la Flaminia doveva trovarsi non lontano dal corso del fiume Sillaro, ebbene,  questa non è solo una mia opinione, ma è anche quella dei due più autorevoli studiosi dell’epoca romana, il  Susini ed Tibiletti. Vediamo le loro affermazioni. Il  Susini, descrivendo il tracciato  verso il mare della già ricordata via Flaminia  minor dice  quasi a costituire un autentico limes settentrionale della nascente Romagna.(11).   Ancor più chiaro è il Tibiletti,  corso del citato  articolo, dopo aver elencato le divisioni amministrative avvenute durante l’età imperiale romana, fa una affermazione  particolarmente significativa; “è singolare  che il confine fra la nuova, ridotta Aemilia e la Flaminia, richiami a grandi linee quella che dopo millenni e dopo le vicende  bizantine, longobarde e medioevali, sarà la suddivisione fra la Romagna e i moderni ducati. Indubbiamente è mera causalità, almeno secondo lo stato della nostra conoscenza, tanto scarsa, delle più profonde leggi storico-geografiche.” (12) Questo significa, perciò, che al seguito della divisione amministrativa avvenuta nel 215,  Faenza ed  Imola facevano civilmente  parte della Flaminia.  Si tratta ora di vedere se  tale situazione, è rimasta tale   anche durante i successivi periodi romani.  Trovo incomprensibile la ragione per cui gli studiosi che si sono interessati dei confini esistenti nel periodo tardoantico non abbiano  tenuto conto delle affermazioni fatte dal Susini e dal Tibiletti.(13)

 

SITUAZIONE CIVILE  NEL  IV SECOLO

Come abbiamo già detto, al seguito di varie suddivisioni  succedutesi nel corso del secondo e terzo secolo, in particolare quella dell’imperatore Diocleziano, l’Italia si è trovata divisa in due vicariati: annonario con capitale Milano e suburbicario con capitale Roma. Non è chiaro se l’Italia si trovò divisa in due vicariati e consegnata a due vicari, oppure  divisa in due vicariati e  consegnata ad un solo vicario, oppure un solo vicariato ma consegnato a due vicari. A parere di alcuni studiosi(14) la Diocesi Italiciana (  cosi era chiamato il territorio italiano) era l’unica Diocesi dell’impero governata da due Vicari. Questo significa che ogni Vicario poteva per necessità, per esempio in caso di carestia, o anche per altre ragioni, sconfinare nel territorio dell’altro vicario.  Non solo, la elezione  di un nuovo vicario spesso significava cambiamento giurisdizionale del territorio, infatti un Vicario di famiglia ricca poteva pretendere  una maggiore estensione territoriale da governare. Come si può capire ci troviamo di fronte a un confine “ballerino”, conseguentemente si incontrano enormi difficoltà a determinarne esattamente il  tracciato.

Il nostro territorio si è trovato interessato da due confini: quello fra vicariato annonario e suburbicario e quello fra Emilia e Flaminia, cioè la futura Romagna.

Per poter determinare i due confini occorre  dare una risposta a due  già segnalati interrogativi: quali sono le regioni  del vicariato annonario ?  E quali sono le città facenti parte della Flaminia? Nonostante le sopra citate difficoltà,  cerchiamo di approfondire l’argomento.

Vediamo  anzitutto come si sono pronunciati gli studiosi,  precisando  che cotesti pareri riguardano esclusivamente  la situazione del IV secolo.

  Riguardo alla appartenenza  della Flaminia alla Annonaria o alla Suburbicaria, i pareri degli studiosi sono discordi:  per la stragrande maggioranza di loro,( 15) facevano parte della Annonaria sia l’Emilia che  la Flaminia ed anche una parte del   Piceno,( le Marche), perciò Imola e Faenza, indipendentemente che queste città si trovassero in Emilia oppure nella Flaminia, si sarebbero trovate  nel vicariato Annonario, cioè sotto Milano. Per altri(16) invece la Flaminia faceva parte della Suburbicaria.  Per i primi, il confine meridionale della Annonaria  si trovava in una linea che andava dall’Esino,  fiume marchigiano,   all’Arno, il fiume di Firenze, perciò per questi autori il  confine era lontano dalle nostre zone.  Quelli che invece dicono “Flaminia in Suburbicaria”  mettono in confine della  Flaminia con l’Emilia fra Forlì e Forlimpopoli;  perciò,  per questi studiosi,  le città di Imola e Faenza si sarebbero trovate in Emilia, conseguentemente  sotto Milano. Mi preme sottolineare un importante particolare: da quello che mi risulta nessuno di questi ultimi  studiosi  porta una testimonianza antica  che documenti   l’esistenza in tale periodo di  un  confine fra  Forlimpopoli e Forli)

Vediamo in dettaglio i pronunciamenti degli studiosi e le motivazioni da loro riportate.

 Dai loro scritti mi pare di aver capito che le loro convinzioni sono  scaturite da  antiche testimonianze riportate in alcuni cataloghi di provincie e dalla  citazione  Italia” che compare in vari documenti. Approfondiamo questa  ultima citazione, in quanto significherebbe” vicariato annonario”.

  Al concilio di Sardica del 343 i vescovi firmatari  si firmano in vari modi: quelli dell’alta Italia,  oltre alla loro sede, aggiungono anche la voce Italia ( Protasio Milano Italia , Severo Ravenna Italia ,ecc),  mentre invece  quelli della Italia centrale e  meridionale oltre al nome aggiungono solo la provincia.   La citazione Italia ricordata in questo documento sembra dimostrare che in tale anno  la regione Flaminia, la cui capitale era Ravenna, si trovava civilmente in  vicariato Annonario. Non mancano pure  anche altri documenti antichi che lasciano intendere la stessa cosa. Ma non mancano anche documenti, fra cui molti rescritti imperiali, per esempio quelli riportati dal Giardina(17,  in cui la voce Italia  corrisponde indistintamente a qualsiasi parte del territorio italiano; infatti dei 18 testi riportati  ben 12, con tale dicitura, si intendono tutta la penisola, 3 sono dubbi, ed appena 3  si riferiscono al vicariato annonario. Perciò ovvia conseguenza, non è possibile definire il confine civile fra il vicariato Annonario e Suburbicario nel corso del IV  secolo basandosi solamente sui documenti antichi che riportano la  voce Italia .

  Vediamo invece che  cosa si può ricavare dando uno sguardo agli antichi cataloghi delle “provincie”,  precisando che per “provincia”  a quei tempi si intendeva  regione”.

 Come già detto, vi sono buone ragioni per pensare che gli studiosi moderni abbiano raggiunto il loro convincimento al riguardo dei confini tardo antichi al seguito delle notizie riportate da questi cataloghi, perciò approfondiamone il contenuto.

Si tratta di cataloghi scritti  in varie epoche (dal IV all’VIII secolo) ma che a parere degli studiosi descrivono la  situazione  della seconda metà del IV, cioè il periodo qui maggiormente trattato, ma vedremo  che non sempre è così, spesso si rifanno a situazioni molto più tarde.

Passiamo in rassegna gli elenchi di provincie maggiormente presi in esame iniziando dalla Notitia Dignitatum.  Nell’elenco delle provincie descritte  in questo catalogo, vengono ricordate  fra le altre,  la Flaminia et Piceno con l’aggiunta  Annonaria, e successivamente  il Piceno con l’aggiunta  suburbicario. La dicitura è molto chiara. Se la notizia riportata fosse sicura, ad un certo momento la Flaminia, una parte del Piceno e conseguentemente le città di Imola e Faenza, avrebbero fatto parte del vicariato Annonario e perciò sotto  Milano. Questo è il documento antico che ovviamente viene riportato da moltissimi studiosi, ma a parere di alcuni  questo  catalogo era mancante di  alcune pagine originarie, aggiunte con una certa arbitrarietà da uno studioso tedesco, perciò sarebbe  poco affidabile. Nonostante questa presumibile  inaffidabilità, da questa fonte deve essere nata la convinzione che il confine fra vicariato annonario e vicariato suburbicario fosse continuamente segnato  dal corso dei fiumi  Esino –Arno. Da quello che mi risulta, cotesto catalogo, e la già ricordata sottoscrizione dei vescovi al concilio di Sardica,  sarebbero le uniche ed abbastanza affidabili testimonianze antiche che, seppur non fissando con  precisione il confine civile  fra i due vicariati, ci dice che in alcuni periodi del IV secolo la Flaminia ha fatto parte del vicariato annonario. Nella  Notitia Dignitatum si trova pure una notizia  che potrebbe essere interessante per   il nostro tema: il confine orientale della regione Emilia   è  segnato dal corso del fiume Idex, (Idice). Se questa ultima segnatura è esatta, Imola,  Faenza, ed in tal caso anche Claterna, all’epoca del documento, si trovavano in Flaminia. Naturalmente vi sono delle testimonianze antiche che testimoniano l’appartenenza di Ravenna e della Flaminia in  vicariato suburbicario, per esempio  due rescritti imperiali, anni 364 e 365,( C.Th.IX.30, 1,3).

Esaminiamo anche  gli altri cataloghi riportati da vari studiosi: il Latercolo di Polemio Silvio ed il Latercolo Veronese  . Si tratta di due utili elenchi   che testimoniano le provincie all’epoca esistenti, ma di nessuna utilità per il nostro tema, in quanto non riportano alcun confine.

  Vediamo pure il cosiddetto  Catalogo Madrileno  e  quello riportato dallo storico dei Longobardi Paolo Diacono. Si tratta di due elenchi perfettamente identici; uno deriva dall’altro, probabilmente il catalogo madrileno deriva dalla cronaca di Paolo Diacono,  ma sono importanti in quanto  riportano pure le città delle varie regioni. Ebbene, nell’elenco delle città dell’Emilia  mettono pure Imola. La presenza di questa città  ha sicuramente convinto alcuni studiosi che Imola all’epoca apparteneva alla regione Emilia e che conseguentemente il  confine fra Flaminia ed Emilia  doveva   essere segnato o dal corso del fiume Santerno o da quello del Senio,  perciò non dal Sillaro, ma, se guardiamo meglio questi due cataloghi troveremo qualcosa che ci fa rivedere  questa convinzione: nell’elenco delle regioni in questi due cataloghi, e solo in questi due, compare la provincia delle Alpi Appennine. Non entriamo in merito all’esistenza o meno di questa  enigmatica provincia, vero problema storiografico, che per trattarlo come si deve occorrerebbe scrivere un intero capitolo, non chiediamoci  neanche, seppur sarebbe importante, sapere dove Paolo Diacono ha attinto le notizie  riguardo a questa presunta provincia: dal catalogo interpolato di Polemio Silvio? Dalla  quasi  contemporanea Descriptio Orbis Romani  di Giorgio Ciprio? Da una  raffigurazione  geografica andata perduta? Quello che qui interessa  è di far presente che  la dicitura Alpi Appennine  compare solo in epoca  bizantina, infatti, a parere di molti studiosi, non sarebbe altro che una linea difensiva creata dai Bizantini per arginare l'avanzata longobarda, perciò, questi due cataloghi non descrivono la situazione della fine del IV secolo, bensì una situazione  di alcuni secoli successivi,  conseguentemente le città ricordate, Imola compresa, riguardano semplicemente le città conquistate dai Longobardi.

Altro elenco di provincie; la Cosmografia dell’Anonimo Ravennate.

Da questo elenco si apprende, anche se non fissa esattamente il confine, che la Flaminia, con le città di Imola e Faenza, qui detta  Provincia Ravennatis,(IV,29) faceva parte del vicariato annonario. Ma  questa cosmografia contiene  un particolare  inspiegabilmente  trascurato dagli studiosi: questa opera, scritta nella seconda metà del settimo secolo a Ravenna, fu commissionata  dalla curia arcivescovile ravennate e perciò non può non prestarsi a qualche riflessione. Come è noto, all’epoca dell’arcivescovo Mauro la chiesa ravennate riuscì  a raggiungere la così detta autocefalia, cioè la indipendenza dalla chiesa romana, con tutta una serie di privilegi,  alcuni dei quali sono documentati nella “epigrafe dei privilegi” esistente nella basilica di S. Apollinare in Classe,  ma, è altrettanto noto che, per  raggiungere tale scopo, la curia arcivescovile fece di “tutto”,  compreso  anche alcune  carte false”. Una di queste fu la Passio S. Apollinaris, allo scopo di dimostrare che la loro chiesa era di origine apostolica,  cioè fondata nel primo  secolo da un Apostolo, (18) Una altra “carta falsa”  fu quello di far scrivere un diploma, il tristemente famoso “ diploma di Valentiniano III”,   un elenco di chiese che, da tempi immemorabili, sarebbero state  dipendenti alla chiesa ravennate. Sicuramente usarono  la Passio Sactorum  Vitalis  Valeriae Gervasi Protasi et Ursicini(BHL3514)),  per dimostrare che tale chiesa  non era da meno di Milano, cioè che anche lei poteva vantare dei  martiri;(19)  buon ultimo, fu fatta scrivere la Cosmografia dell’Anonimo Ravennate,   il cui scopo era quello di dimostrare che la chiesa ravennate non dipendeva da Roma. Mi fa piacere aver constatato  che il Mazzarino, commentando tale cosmografia, non escluda nemmeno  lui la possibilità che fosse appositamente  stata scritta per  la “dignitas episcopalis  ecc”(20), conseguentemente, anche il contenuto di  questa cosmografia, in particolare il passo riguardante la posizione giurisdizionale di Ravenna,  deve essere preso con le dovute cautele. Commentando questo capitolo, mi pare di poter dire che è praticamente impossibile  determinare esattamente i confini civili dell’epoca basandosi esclusivamente sulle testimonianze antiche.   

 

SITUAZIONE ECCLESIASTICA  NEL  IV SECOLO

Il quarto secolo è stato sicuramente uno dei  secoli più importanti nella storia della chiesa.  Varie sono le ragioni che lo hanno reso tanto importante: Costantino  fa in modo che la religione cristiana diventi religione di stato, favorendo cosi la conseguente evangelizzazione di tutto il territorio, sia cittadino che rurale; praticano la loro attività pastorale i tre più grandi padri della chiesa,( S. Ambrogio, S. Gerolamo  Sant’Agostino) e  alcuni vescovi  di eccezionale levatura (Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Ilario di Poitiers  e Atanasio di Alessandria); vengono indetti  due concili  ecumenici (Nicea nel 325 e Costantinopoli nel 381) ed alcune centinaia  di concili provinciali, alcuni dei quali ebbero vasta risonanza, come per esempio quelli di  Arles (314), Sardica(344), Rimini (359). Non a caso nel corso di detti sinodi e concili sono state prese delle decisioni  riguardo alla liturgia ed al  primato papale, ancora oggi valide, e, importante per il nostro tema ,  in questo secolo  vengono poste  le basi per le future metropoli ecclesiastiche.

Anzitutto due parole sulla diffusione del cristianesimo:  a parere degli studiosi, tre sarebbero le provenienze della religione cristiana  verso le nostre terre.

A) Da Classe, favorito dalla presenza in loco  del porto romano che metteva in comunicazione  l’alto Adriatico ed il medio oriente.

B) Da Milano lungo la via Emilia.

C) Da Roma attraverso l’Umbria. A mio parere  quest’ultima direttrice è quella che ha  più interessato le nostre zone. Abbiamo già visto che dall’Umbria, lungo la valle Tiberina, sono arrivate nel territorio romagnolo varie popolazioni. Sarebbe strano se non fossero arrivati anche dei cristiani; infatti se diamo uno sguardo ai santi venerati in Romagna, constateremo che quella deve essere stata la provenienza privilegiata.

  Essendo in tema evangelizzazione, mi pare opportuno toccare  un aspetto riguardante il nostro tema, che potrebbe dare ottimi spunti per determinare la dipendenza di Imola e Faenza dalle  chiese antiche, cioè la pratica liturgica in uso  nei primi tempi in tali chiese. Purtroppo da questo aspetto, a prima vista promettente, non è possibile ricavare  qualcosa di concreto, in quanto non si conosce esattamente la provenienza della liturgia siriaca, cioè la antichissima  liturgia praticata in tutte le chiese dell’Italia settentrionale; infatti non è chiaro se sia  arrivata  da Milano, da Ravenna, oppure da Roma attraverso l’Umbria. Senza alcun dubbio la provenienza “siriaca”  di moltissimi santi romagnoli farebbe pensare  ad un arrivo da Roma,(21) ma il tema deve essere  approfondito. 

  Pure meritevole di essere approfondito sarebbe  il “problema”  dell’arianesimo per vedere quanto ha inciso sui primi tempi del cristianesimo in Romagna. Si tratta di un tema scarsamente studiato, che potrebbe far luce su alcuni punti oscuri, in particolare   riguardo alle numerose sedi vescovili emiliano romagnole  per lunghi periodi sprovviste di vescovi.  Ilario di Poitiers ci ha tramandato una lista di vescovi ariani che avevano partecipato al concilio riminese del 359,(22) non si può infatti escludere che alcuni di questi fossero  romagnoli. Una ricerca sul periodo ariano  riguardante questa zona potrebbe anche  dare un risposta ad un importante interrogativo: chi era il metropolita ortodosso dell’Italia settentrionale? Vi sono buone ragioni per credere che fosse S. Eusebio di Vercelli.

Senza alcun dubbio l’eresia ariana fu l’eresia che più di altre  ha fatto “soffrire” la chiesa nel corso della sua bimillenaria storia, si pensi solo alla situazione che si era venuta a creare  riguardo alle sedi episcopali; durante il secolo IV, dalla seconda metà degli anni 50 alla prima metà degli anni 70, le sedi  vescovili più importanti, compreso quelle di Milano e di Roma, erano occupate  da vescovi ariani.  Non molto dissimile era la situazione di quasi tutte le sedi vescovili italiane, infatti  l’imperatore Costante fece in modo che ogni sede fosse occupata da vescovi fedeli all’arianesimo.   

L’arianesimo fu un fenomeno molto complesso che  non investi solo il clero, ma tutta la società civile. In ogni piccola o grande chiesa questa eresia aveva provocato grandi ed infinite discussioni; mentre attualmente nelle canoniche si discute di eutanasia, in quei tempi si discuteva della trinità; mentre oggi nelle botteghe si discute dei temi più disparati, a quei tempi si discuteva della incarnazione.

Entriamo ora nel tema centrale di questo scritto: la metropoli milanese con particolare riguardo al periodo ambrosiano.

Due parole su S. Ambrogio.

Vescovo di Milano dal 374 al 397,  ma alla data della sua elezione era da quattro anni   ”governatore” civile  di alcune regioni fra cui l’Emilia. S. Ambrogio  è  giustamente considerato uno dei massimi padri della chiesa,   la sua liturgia, l’ambrosiana,  è in alcune chiese ancora oggi praticata, ed  il contenuto delle  sue opere è ancora oggi tenuto in grande considerazione.  Il periodo “ambrosiano”, anche grazie ai numerosi suoi scritti,  è uno dei periodi più conosciuti  e dibattuti del tardo antico. Molti sono temi di questo periodo che meriterebbero di essere approfonditi, ma due sono quelli che interessano il nostro tema: l’esistenza o meno della metropoli milanese  e la dipendenza di Imola e Faenza ha detta metropoli.

Si tratta di problemi di difficile soluzione, infatti un numero incredibile di studiosi italiani ed esteri  ha trattato questi temi  senza aver dato risposte soddisfacenti, questo però non significa  che non se ne possa più  parlare. Per comodità di esposizione  il tema Metropoli milanese ho ritenuto opportuno dividerlo in due parti: il periodo pre ambrosiano ed il periodo  ambrosiano. Vediamo che cosa è stato detto in proposito.

 

Metropoli pre ambrosiana.

 A parere di alcuni  cronisti settecenteschi ed ottocenteschi,  la  chiesa milanese sarebbe stata fondata da S. Barnaba, o da S Antalone, cioè da  uno  dei 72 discepoli di Cristo, conseguentemente tale chiesa sarebbe  stata insignita del titolo di metropoli ecclesiastica, già dalla sua fondazione. Effettivamente, come già detto, le chiese che potevano vantare una origine apostolica o sub apostolica non  erano soggette alla dipendenza papale, perciò anche se in antico non erano espressamente dette  “metropoli”, avevano di fatto poteri metropolitici. Ma l’origine della chiesa milanese non risale a tale alta antichità: il suo primo vescovo, S Antalone,  ha tenuto tale cattedra  solo verso la fine del II secolo, se non addirittura all’inizio del III.  L’errore, se cosi si può dire, commesso da questi eruditi fu quello di aver dato eccessivo credito ad una antica cronaca, il De situ civitatis  Mediolani(23)    opera di data incerta, meglio conosciuta come Datiana Historia, ed ad uno scritto di Paolo Diacono (24) il De Episcopis Mettersibus (VIII secolo) nelle quali effettivamente viene riportata la  notizia che  questi due discepoli sarebbero i fondatori di varie chiese, fra cui quella milanese.  Sicuramente  cotesti eruditi presero sul serio anche l’anonimo scrittore greco che  verso il VI secolo  stilò   il catalogo dei 72 discepoli, e non si resero conto che questi scelse  dalle sacre scritture dei nomi alla rinfusa, che ad ogni nome assegnò  arbitrariamente una diocesi. Perciò tale antichissima  presunta  metropolanità, deve essere respinta senza esitazione.

Poco credibile è pure l’ipotesi  che la chiesa milanese  sia diventata metropoli al seguito della divisione civile dell’Italia al seguito della riforma voluta dall’imperatore Diocleziano avvenuta nel 297; siamo ancora nel periodo delle grandi persecuzioni!  Sorprende non poco che vi sia ancora qualche studioso che crede a questa eventualità.           Molti sono invece gli studiosi  fermamente convinti che nei primi decenni del IV secolo la chiesa milanese fosse sicuramente metropolita.  Questi portano come “prova” uno scritto di S. Atanasio. Questo santo, descrivendo le vicende del sinodo milanese del 355, fa presente che alcuni vescovi, a causa degli ariani, furono costretti all’esilio e riporta i loro nomi,  fra gli altri Dionisio di Milano, Lucifero di Cagliari e Paolino di Treviri; ebbene, considerato che a questi tre vescovi S Atanasio aggiunge la dicitura Metropolis .(25), cotesti studiosi  hanno pensato  che si possa intendere “Metropoli Ecclesiastica”,  mentre invece,  come definitivamente accertato,  sia Paolino  di Treviri che Lucifero di Cagliari non erano all’epoca metropoliti ecclesiastici, conseguentemente per metropoli  si deve intendere niente di meno che la istituzione civile.

 Gli studiosi che hanno ritenuto Milano metropoli ecclesiastica anche prima del periodo ambrosiano, cercano di avvalorare la loro convinzione facendo presente che  in vari concili i primi firmatari furono vescovi milanesi. Effettivamente chi firmava per primo, oppure per secondo dopo il Papa, poteva benissimo essere considerato un metropolita, ma dai documenti risulta che questa regola fu valida solo verso la fine del IV secolo. Perciò il constatare  che nel corso del già  ricordato  concilio di Milano del 355,  ove effettivamente Dionisio, vescovo di Milano, sarebbe stato il primo firmatario, non può essere una prova sicura che il vescovo milanese era metropolita, in quanto, nel già ricordato concilio di  Sardica (343),   Protasio di Milano pose la propria firma solo al  sesto posto. Si tenga pure presente che a parere di vari studiosi, fino a tutto il IV secolo l’unico metropolita dell’occidente era il Papa.(26) Non mancano studiosi  pure convinti  che, quando  Milano divenne capitale dell’impero romano(anno 286), diventasse automaticamente anche metropoli ecclesiastica.  Tutto è possibile, ma quella non era una prassi automatica, infatti  nel 402  pure Ravenna  diventò capitale dell’impero romano, ma la sua chiesa diventò metropolita solo trent’anni dopo. Non esiste un solo documento che dimostri  in modo inequivocabile che prima di Ambrogio la chiesa milanese abbia usufruito  dei diritti metropolitici.

 

Periodo ambrosiano. 

Vediamo anche qui come al riguardo si sono espressi gli studiosi. A  parere di quasi tutti   la situazione esistente in epoca ambrosiana sarebbe stata questa: Imola e Faenza in Emilia, la Emilia sotto la metropoli milanese e  conseguentemente Imola e Faenza sotto la dipendenza ecclesiastica  di S Ambrogio.  Il confine  fra la metropolitana ambrosiana e la metropolitana romana si sarebbe trovato fra Forlimpopoli e Forlì, perciò anche Forli sotto Milano. Nessun documento viene portato per dimostrare che quello era effettivamente il confine  fra le due giurisdizioni,  perciò devo pensare  che la loro convinzione sia   basata solamente sul fatto che, ritenendo  civilmente “ milanesi” queste due città,(ma abbiamo già visto che al riguardo sussistono molti dubbi,)  lo fossero anche ecclesiasticamente.  

Vediamo quali sono le ragioni portate dagli studiosi per dimostrare la esistenza della istituzione metropolita  durante l’episcopato di S. Ambrogio.

Due parole sul significato di  metropoli ecclesiastica. Nonostante che al riguardo si continui ancora a discutere, in genere si intende  che il compito del metropolita sia quello di consacrare i vescovi della sua giurisdizione, di indire sinodi e di svolgere attività pastorale su tutto il territorio di sua competenza. Un punto è particolarmente controverso:  se  l’autorità del metropolita  era parziale(sopra di lui il Papa), oppure se l’autorità era  totale, cioè nessuno sopra di lui.  A mio parere, come vedremo più avanti, e a parere di pochi altri, l’autorità del metropolita milanese,  ammesso che nel IV secolo tale metropoli fosse già stata istituita, sarebbe stata solamente” parziale.”

Le motivazioni o “prove” che vengono riportate dagli studiosi  per dimostrare che in epoca ambrosiana  già esisteva la istituzione metropolitana sono due, una lettera che S.Ambrogio avrebbe scritto alla chiesa di Vercelli, e la sua  intensa attività pastorale.

Vorrei precisare che non tutti gli studiosi, che hanno trattato i problemi riguardanti la metropoli ambrosiana, hanno ritenuto opportuno motivare le ragioni per cui la ritengono esistente; infatti, per la stragrande maggioranza di loro, tale esistenza sarebbe un dato  inconfutabile. 

 Approfondiamo le due “prove” sopra accennate per vederne l’attendibilità.

Lettera di S Ambrogio alla chiesa di Vercelli.(27)

Si tratta di una lettera senza data, l‘unico riferimento per datarla è che  quando fu scritta la sede vescovile di Vercelli era vacante, perciò due sole possibili date: anni 370-372, se al seguito della morte del vescovo Eusebio; anno 396, se al seguito della morte  del suo successore Limenio.  Riguardo della data i pareri degli studiosi non sono convergenti, dopo profondi studi lo Schepens (28) l’avrebbe  datata al 372, ma per la quasi totalità degli studiosi la data di tale lettera sarebbe il 396.  Vediamo che  cosa contiene questa lettera  di tanto importante per essere riportata da tutti gli studiosi: sarebbe l’unica lettera ove   S.Ambrogio ricorderebbe l’esistenza a suo tempo della metropoli milanese e ne darebbe addirittura i confini, perciò della massima importanza per il nostro tema, in quanto in nessun altro suo scritto S Ambrogio ha lasciato intendere di essere un metropolita. Vediamone il contenuto.  S Ambrogio, se è lui che scrive, si lamenta col clero vercellese del fatto che da tempo la loro sede vescovile è mancante di vescovo   e che   a causa di tale mancanza non è stato possibile creare altri vescovi, con la grave   conseguenza che  tante altre chiese  ne sono rimaste  sprovviste. Molto probabilmente la chiesa di Vercelli  era una “scuola” di vescovi. La lettera prosegue elencando le regioni  ove vi erano le chiese senza vescovo: Liguria , Emilia, Venezie, e  le regioni  confinanti. Fra le regioni confinanti vi era  pure la Flaminia.

Chiunque si rende conto  della grande importanza che riveste il contenuto di questa lettera, ma esistono seri dubbi  riguardo della sua effettiva paternità.

  Nei primi anni 90, con due articoli, la professoressa Barbara Agosti  ha sollevato molti dubbi sulla “ambrosianita” di tale lettera.(29) Varie sono le ragioni portate da questa studiosa:  lettera stranamente  firmata con la dicitura  Servus Cristi, il cui significato  sarebbe Monaco, perciò, precisa la studiosa, chi scrisse quella lettera non poteva essere S. Ambrogio, ma un vescovo di origine monacale, infatti non  risulta da nessuna fonte che S Ambrogio abbia avuto tale origine(30): all’epoca di S Ambrogio vi erano in Lombardia altri religiosi di nome Ambrogio (31):  un Ambrogio vescovo, un Ambrogio monaco ed un Ambrogio martire,  che spesso furono confusi con  S.Ambrogio.(32)

La Agosti continua facendo presente  che  non sarebbe S Ambrogio il vescovo Ambrogio ricordato in una iscrizione esistente nella Basilica Apostolorum,  e che  non sarebbe S Ambrogio, l’Ambrogio che sarebbe stato visto al funerale di S. Martino,  anche perché S Ambrogio era morto da almeno 6 mesi; che  tale lettera non può essere stata scritta da S. Ambrogio nel 372, cioè durante il periodo che la chiesa di Vercelli era vacante al seguito della  morte di Eusebio, in quanto S. Ambrogio non era ancora stato eletto vescovo; che è poco credibile che S. Ambrogio l’abbia scritta nel  396, (chiesa vacante al seguito della morte di Limenio,) in quanto stranamente non ricorda questo ultimo  vescovo,  che come è scritto in un antichissimo calendario di Vercelli, sarebbe stato il vescovo che lo ha consacrato; che S.Ambrogio in occasione di tale lettera non si  sarebbe recato  personalmente a Vercelli in quanto gravemente ammalato, perciò, conclude la studiosa, anche la data del 396 crea forti dubbi sulla sua  “ambrosianità”(33)

La Agosti ha il merito di aver sollevato seri dubbi su tale lettera, ma precisa  che anche  altri prima di lei si erano accorti  che qualcosa al riguardo non “quadrava”; il biografo  Paolino, non  ritenne inopportuno mettere  cotesta lettera fra quelle meritevoli di essere date alle stampe: probabilmente si era reso conto anche lui che non era di  S.Ambrogio; pure i padri Maurini, monaci dell’ordine di S.Mauro, che nel sedicesimo secolo  pubblicarono tutte le opere ambrosiane, sollevarono seri dubbi sulla paternità ambrosiana di tale lettera.(34)

Veramente,  quando  alcuni mesi fa  lessi tale lettera, rimasi perplesso sul fatto che S Ambrogio si lamentava per la presenza di chiese vacanti, proprio Lui che aveva consacrato tanti vescovi! Notai la stranezza ma sorvolai;  ora invece rileggendola,  noto quanto siano interessanti e motivate le “perplessita” della Agosti. Sorprendentemente i contributi della Agosti non sono stati tenuti in considerazione dalla stragrande maggioranza degli studiosi moderni, pochi di loro infatti hanno ritenuto opportuno  riportare in bibliografia detti scritti e farne un commento, vediamo quei pochi e come si sono pronunciati: il Savon (35) si limita a mettere in discussione la non impossibile ambrosianità del “servus Cristi”,  il Visonà si limita a rimandare   al Savon,(36)  ed altrettanto si comportano  la Lizzi (37) e la Ruggini(38). La Billanovich  invece, da quello che mi risulta unica studiosa,  nel corso di alcuni scritti(39),  dà ragione alla Agosti.   Il  Savon,  il Visona,   la Lizzi  e la Ruggini, non discutono tutte le perplessità della Agosti, in quanto pare che non abbiano conosciuto anche il secondo articolo di questa studiosa, un articolo invece conosciuto dalla Billanovich. Mi pare comunque impossibile che  fra i tantissimi studiosi che si sono interessati del periodo ambrosiano, solo i sopra accennati  abbiano conosciuto gli articoli della Agosti (40), penso piuttosto che non abbiano ritenuto sufficientemente valide le perplessità di questa studiosa, solo cosi si spiegherebbe la loro altrimenti inspiegabile “latitanza”, una latitanza grave, in quanto non avere tenuto conto delle affermazioni della Agosti, significa pure non aver tenuto conto anche dei pareri  del Morigia, dei Maurini,  di Paolino,  dello Schepens, e della Billanovich. Nonostante “l’indifferenza” della stragrande maggioranza degli studiosi, mi pare che “l’ambrosianita” della lettera “ad Vercellensies”  meriti di essere rivista.

Devo comunque prendere atto che, con sorpresa,   nonostante le evidenti  “perplessità”,  si continui a riportare cotesta lettera  come “prova” determinante per ritenere esistente la metropoli milanese durante il periodo ambrosiano.

Vediamo ora  l ‘altra prova: l’intensa attività  pastorale praticata da S.Ambrogio durante il suo pontificato.

Effettivamente S.Ambrogio ha svolto una intensa attività pastorale: consacrato vari vescovi, (Piacenza, Brescia, Aquileia, Ivrea,  Novara ecc), ha indetto vari sinodi (381  Aquileia, 390 e 393  Milano,  ha scritto un grande numero di lettere, è intervenuto in varie dispute.  Senza alcun dubbio il  comportamento di S. Ambrogio è stato il classico comportamento di un metropolita, ma, come è noto, questi ha svolto tale attività non solo nel  presunto suo territorio metropolita, ma anche ben al di fuori della metropoli lombarda: elegge vescovi  a Sirmio e Nicomedia, alcuni li depone, indice il sinodo di  Capua,  scrive lettere ovunque,  si interessa  ed interviene  in problemi delle chiese in Gallia, Spagna, Africa, Siria, Grecia.   Non poteva essere il metropolita di tutto il mondo!  Non è possibile perciò delimitare l’area metropolita di S. Ambrogio  tenendo  conto dei luoghi ove questi ha svolto  la sua attività pastorale; logica vuole  che   tutta questa attività, e la continua richiesta del suo intervento  da parte dei vescovi di tutto il mondo,  non  dipendesse  dal fatto di essere  considerato metropolita, ma piuttosto fosse  dovuta alla sua  eccezionale personalità. Una constatazione, fatta presente da alcuni studiosi,  è che molti si rivolgevano a S.Ambrogio in quanto i Papi dell’epoca  erano “di scarsa levatura”.(41), conseguentemente la seppur eccezionale attività pastorale di S Ambrogio non può essere portata come prova di una certa validità per confermare l’esistenza in tale epoca della metropoli  milanese.

 Si tenga presente anche un particolare di una certa importanza:  le regole riguardanti il comportamento dei metropoliti sono state dettate solo in occasione del concilio di Torino  indetto negli anni  398- 400,(42)                                                                                                                                                                                                                                                                                  cioè alcuni anni dopo la morte di S Ambrogio. Altro particolare degno di nota:  lo pseudo Decretum gelasianum (43) contiene  una dichiarazione  fatta “in un concilio tenuto sotto papa Damaso”,( sicuramente quello del 382),  ove  viene fatto presente che l’unico metropolita dell’occidente è il vescovo di Roma;  tutti i vescovi occidentali presenti a tale sinodo, S. Ambrogio compreso, ratificarono il testo senza discutere e  questo significa che  S.Ambrogio sapeva benissimo di essere un vescovo  che dipendeva dal Papa.

  Da quello che mi risulta,  due soli studiosi hanno chiaramente affermato che, a loro parere, all’epoca di S. Ambrogio non esisteva la metropoli milanese: uno è il  Carli(44)  e l’altro e il Cattaneo(45), ma le loro motivazioni  non sono state tenute nella giusta  considerazione.

Il compito del Carli e del Cattaneo è stato solo quello  di discutere sulla esistenza della metropoli milanese, mentre il mio compito è anche quello di determinare la posizione  ecclesiastica di Imola e Faenza, cioè  se queste due città erano o non erano “suffraganee” di  S Ambrogio, di conseguenza si è reso necessario da parte mia fare ulteriori indagini  riguardo  questo tema.

 Si tenga presente che, siccome  S.Ambrogio, prima di diventare vescovo di Milano, era stato civilmente governatore  di un territorio  comprendete anche la attuale Emilia, non si può escludere, anzi vi sono buone ragioni per credere, che una certa autorità l’abbia mantenuta anche ecclesiasticamente, ma a mio parere,  una dipendenza non  totale,  ma  parziale.

Già abbiamo accennato al parere degli studiosi  riguardo  questo tema,: Imola e Faenza si sarebbero trovate in Emilia, l’Emilia  avrebbe fatto  parte della metropolitana milanese, conseguentemente  queste due città dipendevano da S. Ambrogio.

Perciò, secondo gli studiosi,  nell’ultimo quarto  del IV secolo, la chiesa milanese era metropoli, il metropolista  era S. Ambrogio e  le chiese Imola e Faenza  sarebbero state sue suffraganee. 

Devo purtroppo ripetere una cosa già detta: nessuno studioso, da quello che mi risulta,  ha portato valide  testimonianze atte ad avvalorare queste loro tanto radicate convinzioni, infatti si sono limitati ad affermarlo, come fosse una cosa scontata. Nonostante le  puntigliose ricerche  che ho effettuato,  non ho trovato nessun indizio che confermi  l’opinione degli studiosi, anzi  ne ho trovato vari che  invece  fanno pensare diversamente. Eccone alcuni: nessun vescovo di Imola e di Faenza ha mai partecipato a sinodi indetti dal vescovo milanese; nessun vescovo di Imola e Faenza è stato consacrato da S Ambrogio o da altri metropoliti milanesi,  nell’elenco che S. Ambrogio fa delle città esistenti sulla via Emilia,”semidirutarum  urbium  cadavera” (46) che per qualcuno era l’elenco delle città della sua giurisdizione, non sono elencate queste due città, infatti inizia da Claterna e finisce a Piacenza,  S.Ambrogio non ricorda mai il martire imolese San Cassiano,  a Faenza non è venerato nessun santo Ambrosiano, nell’imolese una solo chiesa è titolata a S Ambrogio, ma si sa che tale intitolazione non ha niente a che fare con la sua attività pastorale((47); infine si può  aggiungere  che S. Ambrogio non ha mai ricordato la Flaminia, mentre invece ha ricordato più volte la Emilia (48). Non vedo, considerati tutti questi “indizi” contrari, come si possa con una certa sicurezza affermare che  Imola e Faenza erano suffraganee di S Ambrogio. Per quanto mi risulta sussistono seri dubbi anche al riguardo della presunta “metropolanità” di S.Ambrogio. A mio parere, (e qui concordo pienamente  con i già citati Carli e Cattaneo,) ciò era  dovuto solamente al suo prestigio personale e non ad una riconosciuta effettiva  giuridica esistenza.  Se effettivamente  fosse esistita la giurisdizione metropolitica milanese, questa “supremazia” sarebbe stata ereditata anche dai  successori di S. Ambrogio, invece  questo, come sarebbe stato logico, non è accaduto; infatti, a parte Simpliciano, suo immediato successore, perciò “erede di scelte ambrosiane”,  a cui ricorrono  gli africani  del concilio di Cartagine del 397, i vescovi della Gallia al concilio di Torino del 398 e i vescovi spagnoli del concilio di Toledo del 400, (concili di fatto indetti dall’ancor vivente  S.Ambrogio,)  tutti gli altri vescovi, ad iniziare da Venerio(401-411), erano vescovi senza alcuna autorità sugli altri colleghi. 

Si tenga pure presente che il primo documento certo della effettiva metropolanità della chiesa milanese risale solo al 451.(49)

 Non è una novità che  alcuni vescovi occidentali, sia della Italia settentrionale che della Gallia, considerata la grande distanza da Roma, prendevano delle  decisioni “metropolitiche”, anche senza essere investiti di tale autorità, costringendo vari papi  a scrivere lettere ad alcuni vescovi facendo loro presente che questi, nel corso della  loro azione pastorale avevano preso delle decisioni che andavano ben oltre  quelle che erano le loro competenze; significative quelle scritte da Innocenzo I  nel 404 al vescovo di Rouen, e quelle scritte nel 417 dal suo successore Zozimo(50,)che più o meno contengono le stesse lamentele, cioè che questi  avevano palesemente trasgredito le direttive sinodali.

In verità  due sono le “prove” che alcuni studiosi hanno portato per dimostrare che Faenza ed Imola erano sotto l’influenza ambrosiana. Vediamole:

 A)  per Faenza;  anno 393, S Ambrogio alloggia per alcuni giorni in quella città,

 B) per Imola; una lettera in cui S Ambrogio ricorda la chiesa imolese. Passiamo in rassegna queste due presumibili “prove”.

 

Permanenza di S Ambrogio a Faenza.

Nel 393 S. Ambrogio  scappa da Milano in quanto sta per arrivare l’usurpatore Eugenio. Per alcuni giorni si ferma a Bologna, poi prosegue  lungo la via Emilia forse intenzionato ad andare a Roma. Non è chiara la ragione per cui  il santo si ferma  pure a Faenza,(51)  forse si tratta di una sosta forzata  a causa del maltempo, ed è proprio durante il soggiorno faentino che riceve l’invito dei fiorentini perché vada nella loro città, ove  resterà almeno un anno. Considerato che a Firenze S. Ambrogio  resta  molto tempo e considerato che   Firenze non faceva parte della metropoli milanese,  non si vede  come una   brevissima e forzata permanenza  a Faenza possa essere considerata una ”prova” per dimostrare  che questa città era  sua suffraganea .

 

 Lettera di S Ambrogio ove ricorda la chiesa Imolese.

Si tratta di una lettera di una certa importanza  e che perciò merita una  approfondita trattazione, infatti  sarà trattata con un apposito capitolo.

 

LETTERA AL VESCOVO COSTANZO

L’anno 379 un vescovo di nome Costanzo,  di non specificata sede, ma sicuramente vicina alla chiesa Imolese,  riceve l’ invito da S. Ambrogio  di visitare saltuariamente la chiesa di Imola, in quanto in quel momento sprovvista di  vescovo.(52)

Moltissimi sono gli studiosi che hanno espresso il loro parere  riguardo alla sede di questo Vescovo:  chi dice Faenza chi dice Claterna. Non sono mancate anche  ipotesi  su altre sedi,  ma  giustamente accantonate in quanto  troppo lontane da Imola. Pochi sono gli elementi sicuri che possono scaturire dalla lettura di questa lettera, ma uno è certo: la sede del vescovo Costanzo doveva dipendere, dipendenza totale o parziale, sicuramente  dalla sede ambrosiana, infatti ben difficilmente S. Ambrogio si sarebbe rivolto ad un vescovo non suo suffraganeo  per dargli  simili  direttive. Non si può affatto escludere che questo Costanzo fosse di scuola milanese, non a caso  lo chiama “figlio mio”. Chiunque si rende conto perciò di  quanto questa lettera sia importante per il tema che stiamo trattando; determinando con sicurezza la sede di questo Costanzo, avremmo un “punto fermo”  riguardo alla estensione della giurisdizione ecclesiastica milanese. Approfondiamone  perciò il contenuto.

L’interessamento di S. Ambrogio verso la chiesa imolese farebbe pensare che tale chiesa fosse  sua suffraganea; questo è anche il parere della stragrande maggioranza degli studiosi, ma abbiamo già visto che  S.Ambrogio, nel corso della sua azione pastorale, si è più volte  interessato di tante chiese non sue, perciò, pur essendo un ottimo indizio, il semplice interessamento non può essere portato come prova sicura di  “sua” chiesa, perciò occorrono altre prove, o altri indizi, ma , da quello che mi risulta,  altre prove o altri indizi  non esistono, mente invece esistono i validi “ indizi”  già riportati,   che  mettono fortemente in  dubbio la dipendenza di Imola  e Faenza dal vescovo milanese. Mi rendo conto che  questi ultimi indizi non sono sufficienti per negare  con sicurezza matematica  la non dipendenza ambrosiana di Imola, ma mi pare che sia  ancor più difficile  considerare Imola “ambrosiana” solo  grazie al sopra detto interessamento. Vediamo ora di rispondere alla domanda “chiave” di questo capitolo: quale era la sede di questo Costanzo?

Abbiamo già detto  quali sono i pareri degli studiosi:  Faenza oppure Claterna. Vediamo quali sono le motivazioni che riportano questi studiosi  per avvalorare le loro ipotesi.  Per il Lanzoni  la sede di questo Costanzo sarebbe Claterna, la  “prova” sarebbe che Claterna sarebbe stata    la città più vicina ad Imola.(53)   Per il Lucchesi ed altri studiosi   faentini,(54) la sede di Costanzo  sarebbe stata   Faenza, in quanto era invece questa la città più vicina ad Imola. Chiunque si rende conto della vistosa “debolezza “ di queste prove; l’appartenenza  vescovile del vescovo Costanzo non può essere determinata tenendo conto solo della distanza di poche miglia.  Il Lucchesi, aggiunge anche alcune motivazioni, che  sembrano più consistenti; a suo parere la sede  poteva essere solo Faenza, sia perché non esistono documenti che dichiarano  Claterna diocesi sia ed in particolare in quanto è sua ferma convinzione che le chiese di Imola e di  Faenza fossero  suffraganee di S Ambrogio.(55). Per il Palanque(56), il Pasini (57), e pochissimi altri, la sede di Costanzo sarebbe   Claterna. Questo significa che, almeno a  loro parere,  Claterna doveva  all’epoca essere sede vescovile, ma, anche qui, cosa grave, non portano al riguardo testimonianze o motivazioni per tale dimostrazione. La mia considerazione  al riguardo è questa: S.Ambrogio doveva obbligatoriamente rivolgersi ad un vescovo di una “sua” chiesa. Ebbene, siccome a mio parere la chiesa faentina, per i motivi già detti, non dipendeva dalla chiesa milanese, conseguentemente il Santo non ha potuto rivolgersi al vescovo di questa città, e ha dovuto rivolgersi ad altre chiese  che si trovassero vicine ad Imola, ma  che fossero sue suffraganee. Perciò Faenza non poteva essere la sede del vescovo Costanzo. Ma  allora a quali chiese ha dovuto rivolgersi S.Ambrogio?  Le uniche due chiese che avessero tali, a mio parere, indispensabili  requisiti, erano Claterna e Bologna, perciò ad una di queste  ha dovuto rivolgersi. Proporre anche  Claterna come possibile  sede del vescovo Costanzo comporta comunque la dimostrazione che  tale città fosse  sicuramente  diocesi, cioè sede vescovile, purtroppo, che io sappia, non vi sono testimonianze antiche e   sicure che lo provino. La mancanza di testimonianze documentarie  che dimostrino Claterna  sede vescovile, non  può comunque essere una “prova” sicura che questa città  non ha mai avuto un vescovo. Si tenga  presente che  Claterna, a  differenza di tante altre città,  fu distrutta molto presto, questa può essere una delle ragioni per  cui  con tale qualifica non è  ricordata, come pure si deve tenere presente un altro importante particolare; tutte le città  romane poste sulla via Emilia furono sedi vescovili, quindi sarebbe molto strano che solo Claterna non lo  fosse stata.

Ma, pur, con tanti dubbi esistenti, sono personalmente convinto che Claterna fosse diocesi. Che  cosa me lo fa pensare?  Mi sono fatto una domanda:  se  a Claterna non vi  era un Vescovo, e  S.Ambrogio, come abbiamo visto, ha dovuto necessariamente dare ad un vescovo suo suffraganeo la cura di Imola, a quale altra chiesa vescovile avrebbe potuto rivolgersi? La risposta può essere una sola: Bologna, fra l’altro   chiesa  con vescovi che conosceva molto bene. Ma i fatti dicono che a  Bologna non si e rivolto, infatti la lista episcopale bolognese non contiene nessun  vescovo di nome  Costanzo.(58 ) Queste semplici constatazioni sono per me una “prova” per poter dire che  Claterna  all’epoca non poteva non essere diocesi: perciò Claterna era  sede del vescovo Costanzo.

Se questa mia ipotesi fosse valida, troverebbero  la  risposta anche due altri interrogativi: questo Costanzo  sarebbe pure il destinatario di una altra lettera che S. Ambrogio scrisse successivamente ad un vescovo di tale nome,(59) come pure si avrebbe la certezza che il vescovo Costanzo,  presente al sinodo milanese del 393 indetto da S Ambrogio, fosse effettivamente quello di Claterna.

Detto questo , ammesso che le motivazioni riportate abbiano una certa validità, dobbiamo dare una risposta ad una  domanda: se veramente Imola non faceva parte della metropoli milanese, come si spiega l’interessamento di  S.Ambrogio verso tale chiesa ? Non mi pare che per rispondere a questa pertinente domanda sia sufficiente far presente, come in altri casi, che S.Ambrogio si era già più volte interessato a chiese non sue. Pur prendendo atto che  sarebbe pur sempre una  “risposta”,  cercherò di dare più credito a questa motivazione, facendo l’ennesima ipotesi. L’anno 378, cioè quello precedente alla lettera ambrosiana al vescovo Costanzo, come è noto,  S. Ambrogio  partecipa ad un sinodo romano, ove, fra gli scopi per cui fu indetto, vi era la necessità  di discutere la situazione venutasi a creare al seguito della” crisi ariana”. Come  è noto e come già detto, al seguito di detta crisi, a molte chiese  dell’Italia settentrionale fu imposto, per ordine imperiale, un  vescovo  Ariano, ma, nonostante  che da vari anni gli ortodossi avessero avuto il sopravvento sugli ariani, alcuni vescovi ariani, per esempio   Urbano di Parma,(60) pur essendo stati scomunicati, continuavano a detenere le loro sedi,  (La scomunica papale di un vescovo emiliano potrebbe fra l’altro  essere una  “prova” che almeno in quel periodo, il Papa era  il metropolita di tutto  l’occidente). Ebbene non si può escludere che anche ad Imola  vi  fosse stato un vescovo ariano e che, al seguito della scomunica  papale, avesse abbandonato tale sede, ma che il clero imolese fosse in maggioranza di fede ariana.  Questa non impossibile eventualità spiegherebbe la ragione  dell’interessamento di  S.Ambrogio verso la chiesa imolese. L’interessamento di S Ambrogio verso la chiesa imolese non sarebbe perciò nient’altro che un interessamento su delega papale;  mi fa piacere constatare, che, seppur inascoltato, questo parere fu espresso nel 1787 anche  dal Carli(61) Non a caso la lettera che  S.Ambrogio scrisse a Costanzo era particolarmente incentrata sul problema degli ariani. Infatti nella citata lettera S Ambrogio  si limita ad invitare  Costanzo a  visitare la chiesa di Imola affinché non sia stato eletto un vescovo,  ma, attenzione, non dice che prossimamente verrà  lui ad eleggerlo o a consacrarlo, non sembra affatto  preoccupato per tale elezione: la sua preoccupazione sembra invece rivolta alla presenza in loco di Illirici di fede ariana.  

  D’altronde non sarebbe la prima volta che S. Ambrogio, seppur  per finalità diversa,  si interessa, al seguito di delega papale, ad una sede vescovile non facente parte della sua giurisdizione. Ciò era già accaduto nel 378, in  occasione dell’elezione  di Anemio vescovo di Sirmio(62). Non so fino a che punto questa ipotesi possa essere valida, ma, fra le ragioni  per cui il famoso concilio di Rimini (359)  ove gli ariani  stravinsero,   fu  tenuto in quella  città, può esserci  che nella Flaminia le sedi vescovili erano tutte occupate dagli ariani, perciò poca meraviglia se anche la sede imolese era stata occupata da un vescovo ariano.  

Termino con una avvertenza: nonostante che questi temi siano stati  in passato affrontati da numerosissimi e qualificatissimi studiosi italiani ed esteri, nel corso di questo scritto ho detto molte cose diverse da quelle dette da loro, e fatto delle valutazioni che  metterebbero in discussione cose  che sembravano definitivamente accertate.  Essendomi anch’io chiesto come questo sia potuto accadere,  mi sono dato questa risposta:  la evidente differenza di valutazione e di ipotesi fra li studiosi ed il sottoscritto è che gli studiosi diversamente dal sottoscritto non hanno tenuto conto della presenza in loco del confine segnato dal fiume Sillaro.

Già si è fatto un cenno ai confini che questo fiume ha segnato nel corso della storia, ma dando uno sguardo al suo corso, constateremo pure che è contrassegnato da tutta una serie di diversità: antropologiche, culturali, linguistiche, folkloristiche, pratiche e culture agricole, insediamenti abitativi,ecc. Si tratta di evidentissime diversità  non riscontrabili negli altri fiumi emiliano-romagnoli e perciò difficilmente spiegabili, se non prendendo atto che in loco deve esserci stato un confine che nel corso dei secoli ha ininterrottamente tenuto diviso due diverse aree. Alla luce di queste constatazioni, ho potuto formulare ipotesi alternative.      

 

Note:

1. G. Sgubbi , Il Sillaro confine della Romagna,  Faenza 2003.

2. G.  Sgubbi G, Bibliografia Tardoantica,  Faenza 2006.

3.  Marziale, Epigrammi traduzione ”G. Ceronetti.” 1954

4. G. Susini,  Storia e cultura  nell’antico  territorio lughese, in  Storia di Lugo I Dalla preistoria alla età moderna, 1995, p. 86.

5.  N. Alfieri , Alla ricerca della Flaminia “miior”,  in Rend. Accad.Sc.Ist.Bologna 1975, pp. 51-67.

6. G. Susini, Sulla via Flaminia II , in “Studi antichi in memoria di F. Grosso” 1985, p. 603.

7. La Romagna nella stampa dal cinquecento all’ottocento,  a cura di Sandra Faini e Luca Majoli  Ravenna.1992,fig. 16

8. F. Lanzoni, Le diocesi  d’Italia dalle origini al principio del secolo VII.  Faenza 1927,      P.767.

9. Memorie della chiesa cattedrale di Imola, Imola,  2005, p.415.

10. G. Sgubbi , Il Senio l’antico Tiberiaco?Faenza 2002

11. G. Susini, Sulla via Flaminia  II , cit. p. 604

12. G. Tibiletti, L’amministrazione romana, in “Storia della Emilia-Romagna” a cura di Berselli 1975, p.144.

13. Eppure la Cracco Ruggini nella introduzione  della sua  opera  Economia e società della Italia Annonaria  Bari 1995 pag XXV  ringrazia  per i suggerimenti ricevuti  sia il Susini che il Tibiletti, ma a quanto pare di tali suggerimenti non ne ha tenuto conto.

14. A. Giardina, Le due Italie nella forma tarda dell’impero in L’Italia Romana Bari 2004 p. 273 

15. G. Cipolla,  Giurisdizione metropolitica della sede milanese nella regione X. In  <Ambrosiana>, Milano, 1897, p. 71.

16. C.Violante,   Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche  dell’Italia settentrionale nel medioevo 1986 p.32

17. A. Giardina,   L’Italia Romana 2004 p. 274 .

18. Effettivamente  se una chiesa poteva vantare una origine apostolica o sub apostolica, cioè fondata da un Apostolo oppure da un discepole di Cristo, poteva pretendere di essere completamente indipendente dalla chiesa romana, ma, come è stato  ampiamente  dimostrato, la fondazione della  chiesa ravennate  risale alla fine del II secolo se non addirittura all’inizio del terzo. Quelli che inventarono  la detta Passio  sapevano che il vescovo ravennate S. Severo aveva partecipato al concilio di Sardica (343) e perciò occorreva fare in modo che i predecessori di questo vescovo, per raggiungere il periodo apostolico, riempissero un periodo di quasi trecento anni;  per far questo furono costretti ad usare due stratagemmi; inventarono qualche vescovo, per esempio san Procolo,( cifr G. Sgubbi, Un enigma di Pieve Ponte  il titolare San Procolo, Faenza 2003 p. 6). e ad alcuni vescovi attribuirono pontificati incredibilmente lunghi:  ( S. Severo anni 64 e S. Marcellino 50)

19. Particolarmente interessante questa Passione in quanto potrebbe essere stata scritta da un Ambrogio ravennate, perciò le notizie riportate potrebbero essere veritiere e permetterebbero di rivedere  alcuni aspetti riguardanti i primi tempi della chiesa ravennate.   Le indagini al riguardo  potrebbero essere indirizzate verso un tema di una certa importanza: mi riferisco alla possibilità  che i martiri Gervasio e Protasio corrispondano ai  Dioscuri. Considerato che nel ravennate vi sono molte testimonianze riguardanti i due gemelli  protagonisti  della Saga Argonautica, e che all’epoca della Passio vi erano in loco  molti pagani di origine orientali, non si può escludere che questa sia pure servita al clero ravennate per facilitare il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, perciò si tratta di un tema  che ben si presta ad essere approfondito. Detto tema, all’inizio del secolo scorso, fu   oggetto di un vivace  dibattito,  si veda al proposito: Rendel Harris. The Dioscuri in the Christian Legend. London  1903; Franchi De Cavalieri, I santi Gervasio e Protasio sono una imitazione di Castore e Polluce? In Nuovo Bollettino di Archeologia Cristiana  1903; H.Delehaye,  Castor e Pollux dans les Legends Hagiographiques in Anal. Boll. 1904; P . Saintyenes, Les  Saintes successeur des Dieux  1907, e  recentemente G.  Sgubbi   Le radici della Romagna affondano nella saga Argonautica. Faenza 2006.

20. S.Mazzarino,  Da Lollianus et Arbetio al mosaico storico di S Apollinare in Classe. In”Helikon” Messina 1965 pp56-57.

21. G. Sgubbi,  Un enigma di Pieve Ponte il titolare S. Procolo, cit, p. 3.   Se diamo uno sguardo ai santi venerati  in Umbria nei primi tempi del cristianesimo constateremo che alcuni di questi sono venerati anche in Romagna: S.Cassiano, S.Eustacchio, S.Valentino, S.Savino, ed alcuni si trovano pure  nelle nostre liste episcopali; S.Apollinare, S.Procolo e S.Orso. Un particolare interessante che meriterebbe di essere approfondito riguarda il vescovo S.Orso; questi, vescovo ravennate che  avrebbe tenuto tale cattedra  dal 369 al 396, pur essendo sicuramente originario della Sicilia, deve necessariamente essere vissuto per un certo periodo anche in Umbria, in caso contrario difficilmente si spiegherebbe la ragione per cui la sua morte avvenuta il 13 aprile,  fu annunziata 14 giorni prima, da un Giovanni, monaco di Spoleto, cifr G. Gregoire,  Il monachesimo in Umbria in Ricerche sull’Umbria tardo Antica e Preromanica_ atti del II convegno di Studi Umbri Gubbio 1964 p. 268.

A parere della stragrande maggioranza degli studiosi la liturgia siriaca  sarebbe  arrivata nelle nostre zone grazie ad un tragitto marittimo, essi  portano come “prova” l’arrivo di S.Apollinare a Classe,  ma se diamo uno sguardo  alla Passio  S.Apollinaris , versione greca,(codice greco di S. Salvatore 29), tale opinione  potrebbe essere riveduta: se è pur vero che quando il vicario chiese a S.Apollinare da dove era arrivato, questi rispose  “Antiochia”,(cap XVI),  perciò con un  presumibile  tragitto marittimo, è  però anche vero che, quando  il tribuno Tecla fece la stessa domanda al soldato Ireneo(cap IV) , questi rispose da “Roma”;  questo significa che S. Apollinare sarebbe arrivato da Antiochia  a Roma via mare, ma poi che il tragitto da Roma a Ravenna  sarebbe stato effettuato via terra. La provenienza del cristianesimo in Romagna  è già da parte mia fatto oggetto di ricerche, che ben presto saranno date alle stampe col titolo: La provenienza umbra del cristianesimo romagnolo.      Quando  iniziai  queste ricerche  ero fermamente convinto  che una indagine al riguardo della pratica liturgica sarebbe stata utilissima  per il mio tema, ebbene, devo ammettere la mia profonda delusione, nonostante le ricerche effettuate,  non sono approdato a  risultati di qualche consistenza, porto due esempi significativi riguardanti  alcuni aspetti “liturgici”: nonostante che sia Ravenna che Gubbio non abbiamo mai dipeso dalla chiesa milanese, nelle loro chiese era praticata la liturgia ambrosiana. Ero pure  convinto, ma anche qui sono rimasto deluso, che utili indizi   avrebbero potuto scaturire al seguito di una  ricerca  sull’orientamento delle primitive cattedrali, purtroppo,  forse a causa della penuria di dati archeologici, non ho trovato niente di concreto.  QUA 

22. Hilarius fragmenta historica VIII. 1. Restitutus, Gregorius, Honoratus, Arthemius, Iginus, Priscus, Primis, Taurinus, Lucius, Mustacius, Urbanus, Honoratus, Solutor.  A questo elenco potremmo aggiungere anche una lista  di vescovi che all’epoca del Baronio si trovavano nell’archivio della chiesa di Vercelli: Cacilianus, Valens, Ursacius, Saturninus, Eutiminus, Junior, Proculus, Martinianus, Probus, Gregorius, Victor, Vitalianus, Gaius, Paulus, Germinius, Evagrius, Epittetus, Leontius, Olympius, Trophon, Dionisius, Acatius, Eustatius, Rotanus, Olimpius, Stratolalus, Florents, Quintilius, Caprens. Come pure si può aggiungere anche una lista di vescovi  riportati da S Atanasio:Probatius, Viator, Facundinos, Joseph, Numedius, Sperantius, Severus, Heraclianus, Faustinus, Antoninus, Heraclius, Vitalius, Felix, Crispinus, Paulianus.  Anche in queste due liste vi possono essere dei vescovi romagnoli.

23. P. Tomea, Qualche riflessione sulla epistola “de Civitates Mediolani” in Aevum 1989.

24. Paolo Diacono . De Ordine Episcoporum Mettensium,. Mon Germ Hist. II p. 261

25. G.Villa, Fasti della metropoli  e del metropolita  Milano 1830 p. 12

26. E.Cattaneo,  op. cit p. 472

27. Epist Ad vercellensis  Maurini 63

28. P.Schepens,   L’Ambosiastre et saint Eusèbe de Verceil in Recherches de Science  Religeuse  37 (1950) p. 297.

29. B. Agosti,   L’Epistola Ad Vercellensis di Ambrosius  Servus Cristi in Rivista Cistercense 1990, pp 215-217. Idem Alcuni Ambrosi a Milano alla fine del IV secolo e la Basilica Apostolorum in  Rivista Archeologica dell’Antica Provincia e Diocesi di Como 1991 pp 5-35

30. Che effettivamente S. Ambrogio non si firmava mai “Servus Cristi” lo si apprende dando uno sguardo alle passioni a lui falsamente attribuite, infatti la presenza del “Servus Cristi” in dette passioni, è stata la ragione principale per cui sono state successivamente considerate  “Pseudo Ambrosiane”; Passio Sanctorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi Ursicini BHL 3514; Atti S.Agnese PL XVII 813 ; le due Passio  SS. Vitale ed Agricola; BHL 8690 e 8692 ;ecc.

31.P. Morigia,  Historia  dell’antichità di Milano 1592 p. 332

32. Biblioteca Sanctorum” voce” S. Ambrogio

33. B. Agosti,   Epist Ad Vercellensis  cit. p. 217

34. B. Agosti,  idem p. 217.

35. H. Savon,  Ambrosie de Milan  Paris 1997 pp 326-329.

36. G. Visona,  IlCristianesimo a Novara e sul territorio: le origini  Novara 1999 pp 150.151

37. Rita Lizzi Testa, Senatori, Popolo, e Papi: il governo di Roma al tempo dei Valentiniani Bari 2004 p. 115.

38. Cracco  Ruggini, Vercelli e Milano nessi politici e rapporti ecclesiali nel IV secolo in Eusebio di Vercelli ed il suo tempo 1997  Roma p. 100

39. M.P.Billanovich,   L’Autore dei tituli Ambrosiani : S Ambrogio o un vescovo di Pavia? In Italia Medievale ed Umanistica 1993 p. 51: idem Le circoscrizioni ecclesiastiche dell’Italia settentrionale tra tarda antichità e l’alto medioevo in Italia Medievale ed Umanistica 1991 p.23.

40. Posso capire la ragione per cui  questi studiosi non hanno conosciuto anche il secondo articolo della Agosti; effettivamente è stato pubblicato in una rivista di non grande diffusione, ma mi pare strano che non abbiano conosciuto neanche gli scritti della Billanovich.

41. “Figure di Papi scialbe” cifrG.R. Palanque, Le metropoli ecclesiastiche alla fine del IV secolo in Storia della chiesa di Fliche A e Martin V Torino 1940 p. 708

42. E.Cattaneo,  Sant’Ambrogio e le costituzioni delle Provincie Ecclesiastiche dell’Italia settentrionale in Ravennatensia 1972 pp 467-484.

43. V. Grossi,   Il Decreto Gelasianum. Nota  in margine della chiesa di Roma alla fine del secolo V.  in  Augustinianum 2001, p. 241

44. G.R. Carli,    Del diritto metropolitico della chiesa di Milano  Milano 1786 pp 185-195.

45. E. Cattaneo,  Sant’Ambrogio e le costituzioni   cit. pag. 

46. Epistola Maurini 39

47. La chiesa parrocchiale col patrono S.Ambrogio non è derivata dal fatto che  tale  territorio era di competenza milanese, ma che tale chiesa fu edificata da famiglie lombarde fuggite al seguito delle scorribande degli Unni (452)oppure dei Longobardi(568) cifrG,F, Cortini,    Storia di Castel Del Rio  Imola1933 p. 5.

48. Epistola  23 Maurini

49. E. Cattaneo,  op. cit. p. 483

50. E. Cattaneo,  op.cit. p.481

51.Paulini , Vita S Ambrosii  27  in PL 14,38.

52. Epistola 2 maurini

53. F. Lanzoni, Op. cit.p.772

54. G Lucchesi,  La diocesi di Faenza in scritti minori. Faenza. 1983. p. 85

55. G,Lucchesi. Op. cit. p. 85. Il considerare “ sicuro” perciò senza il proverbiale dubbio, che Imola faceva parte della antica provincia ecclesiastica milanese, ha di fatto impedito una “serena” indagine riguardante i vescovi di tale città, infatti, nonostante che L’Ughelli (Italia Sacra t. II p. 623) abbia dichiarato che nell’anno 400 un Cornelio Imolese sarebbe stato consacrato dal Papa, nonostante che questo fosse pure il parere dell’Agnello Ravennate, M.Pierpaoli, Il libro di Andrea Agnello Ravenna 1988, p.72, e testimoniato pure  dal Crisologo,(sermone 165), alcuni studiosi,  fra cui  il Lucchesi (Stato attuale  degli studi  sui santi dell’antica provincia ravennate, in Ravennatensia 1 Cesena 1969 pp 78-81),  hanno contestato tale testimonianza  con la semplice motivazione  che  <all’epoca ricordata dal Crisologo,( inizio V secolo) Imola  era suffraganea di Milano, perciò eventuali suoi vescovi non potevano essere consacrati dal Papa.>  Certe “sentenze”,  frutto di convincimenti troppo radicati, lasciano perplessi.

56. G.R.Palanque,  op. cit.  p. 691.

57. S. Pasini,    Ambrogio da Milano 1996 p. 203

58. F. Lanzoni, op. cit. p. 771

59. Epistola 72 Maurini

60. F. Lanzoni,  op. cit p. 807

61. G.R. Carli, op. cit. p. 236

62. G. Menis,  Le giurisdizioni metropolitiche di Aquilea e Milano nella tarda antichità in AAAd 1973 p. 28

 

APPENDICE
Nel corso di una conferenza mi è stata rivolta una  domanda: la constatazione dell’esistenza documentaria di un confine segnato dal corso del fiume Idice e la  mancanza documentaria dell’esistenza di un confine segnato dal corso del fiume Sillaro, non è forse sufficiente per mettere   in discussione i suoi  radicati convincimenti?

Domanda legittima che  merita una giustificazione.   

 L’inesistenza  documentaria di un  confine segnato dal fiume Sillaro. Se numerosissimi e qualificati studiosi, nonostante la mancanza di alcun documento, hanno ugualmente ritenuto opportuno “sentenziare” che detto confine si trovava ad Est di Forli, non vedo la ragione di non potere anch’io fare altrettanto, anzi, diversamente da questi studiosi, ho portato vari indizi che possono rafforzare tale ipotesi.

 La mancanza di  documenti antichi che ricordino un confine segnato dal Sillaro non può comunque significare   che documenti del genere non siamo mai esistiti, possono esserci stati, ma andati tutti perduti. Esempio: se l’unico documento che ricorda un confine segnato dal corso del fiume Idice,  fosse andato perduto, si sarebbe potuto affermare, ma erroneamente , che nessun confine era segnato dal corso dei fiumi.

Non si può inoltre escludere  che all’epoca, per definire l’appartenenza giurisdizionale di una città, non venisse citato il confine territoriale della stessa, ma semplicemente l’appartenenza giurisdizionale  delle autorità sia civili che ecclesiastiche,  e questo  spiegherebbe la ragione per cui  vi è tanta penuria di documentazione riguardante tali confini.

Per quale ragione è ricordato un confine  segnato dall’Idice?

  Una ragione potrebbe esserci: come è noto  in epoca romana il confine fra il territorio della città di Claterna e quello di Imola era segnato dal fiume Sillaro  ed il confine col territorio di  Bologna era segnato dal fiume Idice. Ebbene, al seguito della distruzione di detta città,   e relativa  scomparsa delle autorità  sia civili che ecclesiastiche, si rese necessario aggregare il suo territorio a quello di una altra città confinante, perciò a quello di  Imola oppure a quello di Bologna.  Ebbene il citato documento  fa ritenere che tale territorio sarebbe stato  aggregato a quello di  Imola  e conseguentemente alla Flaminia. Questo significa che in tale periodo,  il corso del fiume Idice segnava  vari confini: il confine territoriale fra Imola e Bologna, il confine fra  la ragione Flaminia e la regione Emilia (come riferito nella Notitia Dignitatum),  il  confine fra vicariato Annonario e vicariato Suburbicario e naturalmente il confine fra la metropoli ecclesiastica romana e la metropoli  ecclesiastica milanese.

Al seguito di questa variazione territoriale può esserci stata la necessità, forse per ragioni amministrative, di designare esattamente il nuovo confine.

 Si trattò sicuramente di un evento eccezionale e  di breve durata, infatti successivamente il territorio di Claterna fu definitivamente incorporato al territorio bolognese e conseguentemente tutti i sopra citati confini  ritornarono ad essere segnati dal corso del fiume Sillaro.   

(Autore: Giuseppe Sgubbi, Solarolo 2006)

 

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