I Figli di Tanith (I)
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(di Michele Trapani - Ricercatore Indipendente)

 
La misteriosa isola di Motya è una delle cose più belle ed affascinanti che mai ci sia capitato di vedere… visitare questo luogo è come fare un tuffo nell’immenso oceano del passato; inabissarsi nelle profondità della terra laddove la luce difficilmente può penetrare.

Un antro nel quale respirano le nostre radici più intime, alla mercé di un tempo andato eppure sempre disposto a disvelare i suoi segreti.

Motya è, nella sua interezza, un’eccezionale reperto archeologico, l’unico centro della Sicilia pervenuto integralmente nel suo aspetto punico. I Fenici scelsero l’isola come loro colonia sia perché (come attesta Tucidide) in questa zona il tragitto tra la Sicilia e Cartagine, allora fiorente alleata, é più breve, sia perché l’avamposto presenta delle difese naturali assai ostiche per chi non ha conoscenza dei fondali. Le acque sono infatti poco profonde ed il pericolo di incagliarsi, per chi voglia approdare sull’isola, è assai forte… solo chi conosce il canale d’ingresso ai suoi lidi può sperare di raggiungere l’approdo.

Questo quadro ci suggerisce un curioso parallelo…

per raggiungere la "terra promessa" (Motya), laddove è custodita la Misteriosa Pietra, esiste un solo sicuro canale d’accesso… possiamo sperare di percorrerlo , superando le innumerevoli difficoltà dell’umano esistere (gli scogli), grazie alle testimonianze di chi ha già percorso con successo la via prima di noi.

Questo é il motivo per cui i Fenici utilizzavano imbarcazioni piccole, leggere e veloci, di cui abbiamo un eccezionale testimonianza a Marsala (Museo Archeologico "Baglio Anselmi"). Infatti il nostro corpo fisico, al pari delle piccole navi puniche, deve essere agile e sano, libero da inutili zavorre che opprimono l’anima.

Solo così gli umili "servitori" possono penetrare i segreti del Mondo.

Pochissime sono le opere pervenuteci dal passato che possono essere utili a tale indagine storico/simbolica.

Pur tuttavia sappiamo che i rapporti tra l’Egitto e il mondo siriaco - palestinese sono di antichissima data.

Le intense relazioni tra Egitto e Fenicia sono riscontrabili nella produzione artistica, con frequente adozione di iconografie e simbologie religiose di chiara origine egizia.

A causa di queste premesse ci siamo sentiti liberi di adottare, come riferimento principe per le nostre riflessioni, quella che è considerata la più importante fonte greca che l’antichità ci ha tramandato sulla religione dell’antico Egitto.

Ci riferiamo ovviamente al "De Iside et Osiride" di Plutarco.

Un’antica leggenda narra che il Re Erice era riuscito a rubare i buoi ad Ercole, dopo di che nascose detti animali in un oscuro antro.

Il nostro eroe riuscì a ritrovarli grazie alle indicazioni di una fanciulla di nome Motya.

Eracle(o Ercole), mosso da indicibile gratitudine, fondò una città che recava per nome quello della giovane donna.

I tori ritrovati erano gli stessi che prima erano appartenuti a Gerione, che notoriamente erano di colore rosso e che Ercole, a detta di Seneca, condusse seco "dalle terre d’Occidente a quelle d’Oriente".

Il rosso è evidenziato anche dal nome del popolo dei fenici (phoinix significa "rosso porpora") a cui apparteneva detta pulzella.

Questa bellissima storia trova un notevole accordo con l’Arte Ermetica, difatti i buoi inizialmente si trovano rinchiusi in una caverna oscura, simbolo della nerezza filosofica.

Il savio Ercole li ricerca in ogni dove e li ritrova grazie alle indicazioni di una donna il cui nome, in lingua fenicia, significa "filanda" quasi a rievocare il mito di Arianna e del prezioso filo donato a Teseo.

Questa donna altri non è che la famosa "Stella Polare" che mostra eternamente la via da percorrere ai Magi d’Oriente.

Ironia della sorte nel Museo Whitaker, sito nell’isoletta, abbiamo riscontrato un buon numero di reperti raffiguranti dei tori

ma la ragione di ciò non va ricercata nella leggenda vista pocanzi, bensì in un altro bue stavolta caro agli antichi Egizi.

Ci stiamo riferendo al sacro Apis.

Ora per meglio capire cosa si debba intendere per tale animale leggiamo cosa ne riferisce a tal proposito Plutarco:

"A Menfi, poi, viene allevato e custodito il bue Apis che è l’immagine dell’anima di Osiride, e si suppone che anche il suo corpo si trovi li; il nome della città significherebbe… <<tomba di Osiride>>".

E poi più avanti: "Apis è l’immagine vivente di Osiride e la sua nascita avviene quando dalla luna cade un raggio di luce fecondante e va a colpire una mucca in calore.

E’ per questo che Apis, col suo mantello misto di chiaro, di grigio e di nero, somiglia molto ai vari aspetti della luna… così la potenza di Osiride viene collegata alla luna: a lui poi si unisce Iside… gli egiziani chiamano quindi la luna <<Madre del Cosmo>>, e le attribuiscono una natura androgina…"

Per avere poi ulteriore chiarimento si potrà leggere il celeberrimo passo della Tavola Smeraldina :"Suo Padre è il Sole Sua Madre la Luna".

Ordunque, Ercole riconquista i buoi dal manto rosso dopo che questi si erano venuti a trovare in una caverna priva di luce simboleggiante le tenebre o "notte oscura dell’anima"… la materia è stata portata a maturazione sino al culmine dell’Astro ermetico per eccellenza.

Questo processo di fissazione viene descritto allegoricamente da uno dei reperti pervenutoci in uno stato di conservazione accettabile, nel quale i protagonisti dello scenario sono ancora ben distinguibili.

Due potenti leoni, con forza e determinazione, combattono di concerto contro un toro;

la figura non lascia dubbi su quello che sarà l’esito di questo scontro, difatti il capo dell’animale al centro della rappresentazione si trova schiacciato contro il terreno e presto lo sarà anche il resto delle sue membra.

In tutto questo alcuna meraviglia; come potrebbe infatti il pesante Toro competere con il nostro Re della foresta filosofica?

Abbiamo visto prima cosa pensavano gli egizi (almeno a detta di Plutarco) nei riguardi del bue Apis; spendiamo dunque qualche parola sul leone.

Nel "De Iside et Osiride" a proposito di questo animale viene riferito un curioso dialogo tra Horos ed il Padre.

Quest’ultimo domanda: quale animale fosse più utile per chi va in battaglia. E Horos rispose: <<Il cavallo>>.

Stupefatto gli chiese perché mai avesse scelto il cavallo e non il leone.

Horos rispose: <<Il leone è utile solo a chi ha bisogno d’aiuto, mentre con il cavallo si può tagliare la strada al nemico in fuga e distruggerlo completamente>>".

Probabilmente Horos non ha bisogno dell’aiuto del leone poiché egli basta a se stesso, nel senso che Horos, per natura, temperamento e discendenza regale può essere considerato alla stessa stregua di un "leone".

Dunque, riassumendo il tutto, abbiamo un’ allegoria rappresentante il Mercurio e lo Zolfo degli alchimisti. Il primo viene raffigurato dal bue sacro ad Iside, cosa che ci viene confermata dalle corna di questo animale evidenzianti un crescente lunare.

Lo Zolfo, invero, ha per degna rappresentanza i due leoni, a causa della loro nobiltà e temperamento caldo.

Il toro viene letteralmente "atterrato" e tutto questo per indicare che si ha una progressiva fissazione del soggetto.

Ci si potrebbe chiedere come mai i leoni siano due… Perché il prodotto di questa operazione è propriamente un "doppio Re" altrimenti detto Rebis.

 

Comunque sia, poco più oltre (rispetto alla precedente citazione), Plutarco si premura d’aggiungere: "Horos… alzò le mani sulla Madre e le strappò dalla testa la corona regale".

 

Il Giovane Di Motya

Facciamo adesso qualche passo a ritroso all’interno del Museo Witaker.

La prima scultura che si pone allo sguardo del visitatore è anche, a nostro modesto parere, una delle più belle ed interessanti.

Trattasi di una statua marmorea denominata "il Giovane di Motya"… possiamo ammirare un giovane dal volto glabro con lo sguardo fiero e sicuro.

Il corpo virile e stabile è ricoperto da una veste che lascia trasparire la possente struttura muscolare… quest’abito è stato scolpito con incomparabile maestria tanto che se ne ha una notevole sensazione di leggerezza che lascia l’attento osservatore senza fiato. La gamba destra, che si trova leggermente avanzata rispetto al resto del corpo, è scoperta; la mano sinistra è ripiegata sul fianco, la destra invece si allunga nell’atteggiamento di trattenere un’arma (un giavellotto?) o uno scettro.

Sul capo portava sicuramente un elmo che gli studiosi indicano di bronzo o di altro metallo prezioso.

Questo reperto è assolutamente unico nel suo genere e queste poche parole impacciate non gli rendono assolutamente giustizia.

La statua in questione risalirebbe al IV secolo a.c. secondo le fonti più accreditate.

Nel 1781 Court De Gebelin, nella sua opera "Monde Primitif", offrì al pubblico la prima descrizione scritta del gioco del Tarocco.

Ora, nell’ VIII tomo dell’opera citata, quest’autore asserisce che il tarocco sarebbe l’unico libro sopravvissuto appartenente alle biblioteche egizie.

In conseguenza di ciò, nonostante alcuni creduli, venne considerato uomo chimerico o, nel migliore dei casi, dotato di eccessiva fantasia.

Vediamo cosa ne scrive a tal proposito O.Wirth nella sua opera sui tarocchi:

"Court De Gebelin afferma del tutto gratuitamente che l’origine dei tarocchi è egiziana… questo significa andare troppo in fretta… l’archeologia non ha scoperto la minima traccia che possa rappresentare le vestigia di tarocchi egiziani, gnostici o almeno alchimistici greco arabi."

Spero non ce ne vogliano a male gli estimatori del Wirth, ma in tutta sincerità non ci sentiamo di passare sotto silenzio la notevole rassomiglianza che sussiste tra il giovane di Motya ed il misterioso protagonista della settima lamina (Le Chariot ).

Secondo Gebelin, il trionfatore sul carro non sarebbe altri che Osiride in trionfo, al ritorno dalla sua spedizione nelle Indie.

L’elemento più caratteristico della statua in oggetto è senz’altro la veste; vediamo cosa scrive Plutarco a proposito dell’abbigliamento di Iside e di Osiride:

"Le vesti di Iside sono di colore variegato: il suo abito infatti è quello della materia, la quale si evolve in tutte le forme e a tutte le forme si presta, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine.

La veste di Osiride, invece, non è ne sfumata, ne screziata: il suo colore è uno solo, quello della luce."

Essendo la veste di Iside talvolta rappresentata cupa ed impenetrabile, di un nero più nero della nerezza stessa (quindi privo di luce), si potrebbe arguire, senza timore d’incorrere in errore, che la veste di Osiride doveva essere di un colore contrapposto a quella della sua sposa.

Questa potrebbe essere la ragione per cui il giovane di Motya porta un’abito semitrasparente che potremmo dire di un unico colore: "fatto di luce".

Altrove lo stesso Plutarco asserisce che in alcuni casi Osiride viene rappresentato "con un abito rosso fiamma, in ossequio alla concezione secondo la quale il Sole rappresenta la sostanza visibile del bene".

(Autore:Michele Trapani)

  • (Per i riferimenti internet e bibliografici si veda la terza parte del presente lavoro)