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SHERLOCK HOLMES E LA COCAINA

                                                                             (prof. Massimo Centini)

Ci sono personaggi della fantasia che per qualche strana alchimia dell’immaginario hanno infranto i limiti della finzione e sono riusciti a penetrare in un ambito che molte persone sentono di riconoscere quasi come realtà. Scherlock Holmes è uno di questi.

Nato dalla fantasia di Arthur Conan Doyle (1859-1930), un medico che passò alla letteratura, Holmes è una sorta di archetipo dell’investigatore positivista, ma un po’romantico, che ha ottenuto un successo inaspettato e continua ad ottenerlo tra i lettori di tutto i mondo.

Tralasciando il vasto corpus di occasioni di approfondimento che contrassegna la produzione letteraria che ha come protagonista Scherlock Holmes, a cui si aggiunge una bibliografia sconfinata, in questa sede vorremmo soffermarci su un tema particolarmente interessante: l’uso della cocaina da parte del noto investigatore.

“Sherlock Holmes prese il flacone ch'era sulla mensola del camino, tolse la siringa dall'accurato astuccio di marocchino e con le dita lunghe e nervose preparò l'ago. Quindi si rimboccò la manica sinistra della camicia: per qualche attimo fissò affascinato la fitta rete di piccoli punti che le innumerevoli bucature avevano lasciato sul suo braccio pallido. Fissò l'ago nel punto desiderato, premette il piccolo pistone e finalmente si lasciò andare nella poltrona di velluto, traendo un lungo sospiro soddisfatto. Tre volte al giorno, per molti mesi, avevo assistito a questa scena”.

A parlare, o meglio ma scrivere, è il dottor Watson, compagno inseparabile dell’investigatore e soprattutto, nella finzione letteraria, il suo biografo ufficiale.

Di fatto si tratta dell’incipit de Il segno dei quattro: un riferimento all’uso di stupefacenti che ricorre in un paio di altri casi e che si aggiunge a quella presente anche in un altro romanzo di Doyle con Holmes come protagonista: Uno studio in rosso.

Nel gioco degli specchi messo in atto dalla notevole massa di apocrifi, che sono comunque espressione del grande successo riscosso dall’investigatore inventato da Doyle, la questione sulla cocaina non poteva passare inosservata: nel 1975, Nicholas Meyer ha scritto un libro che ha come tema dominante appunto l’abuso di droghe da parte di Holmes. Il libro, La soluzione sette per cento, intende essere una sorta di diario con le memorie del fido Watson. L’assistente dell’investigatore più famoso del mondo, descrive come l’amico divenne schiavo della cocaina, perdendo via via sempre il contatto con la realtà. Ciò lo condusse a un punto tale di disordine che, nell’aprile 1891, cominciò a considerare un pericoloso criminale il suo antico precettore, il professor Moriaty.

Per inciso ricordiamo che nel Canone – i libri scritti da Conan Doyle e con Holmes come protagonista – il professor Moriaty è effettivamente “il cattivo” e acerrimo nemico dell’investigatore, mentre nell’apocrifo di Mayer il suo ruolo risulta completamente stravolto. Comunque, ritornando a La soluzione sette per cento, troviamo Watson che dopo aver letto un articolo sulla cura della cocaina effettuata da un giovane medico viennese (Sigmund Freud), trova il modo di far incontrare il suo amico con il futuro creatore della psicoanalisi.

Freud sottopone con successo l'investigatore a una terapia ipnotica, durante il periodo di cura, i due trovano anche modo di operare affiancati nell'indagine su un caso di criminalità locale che, naturalmente, sarà risolto felicemente.

Holmes e Freud scoprono così vicendevolmente l'impiego degli stessi metodi - osservazione e deduzione - nelle rispettive attività.

Durante la seduta finale di ipnosi, Freud ottiene lo svelamento delle ossessioni di Holmes. Spinto alla droga dall'infelicità fin dai tempi degli studi universitari, Holmes divenne investigatore per punire i malvagi e assicurarli alla giustizia. Lui stesso nell'infanzia aveva assistito all'omicidio della madre adultera da parte di suo padre e alla fuga dell'amante di lei, il precettore Moriarty.

Freud conclude che i fatti svelati spiegano tutte le vicende successive: l'origine del vizio di Holmes, il motivo per cui ha scelto la sua professione, la sua avversione per le donne e l'odio per il professor Moriarty.

A questo punto il gioco del rinvio, corroborato dall'invenzione letteraria, rende evidenti le possibili analogie.

La cocaina può rappresentare il termine medio che unisce Freud e Holmes, psicanalisi e investigazione.

L'attività dell'indagine, la scoperta dei nessi che determinano le catene dei fatti accomuna la psicanalisi e l'investigatore, il medico e il poliziotto, contagiati entrambi dalla promiscuità con il male.

In effetti la connessione tra pratica medica e investigazione criminale costituisce un leitmotiv particolarmente importante e ricco di interessanti risvolti epistemologici. Forse non è senza significato che Doyle fosse laureato in medicina e per un certo periodo esercitasse la professione prima di dedicarsi totalmente alla letteratura.

Nella rilettura proposta da Meyer, Holmes viene descritto come un soggetto affetto da un disturbo paranoideo, con idee di persecuzione che hanno nel professor Moriaty il referente primario.

L’immagine che ne scaturisce è quella di un uomo disturbato, con comportamenti spesso squilibrati, comunque anormali, il che, in larga misura, non si differenzia poi così tanto dal personaggio così come appare in alcune pagine di Doyle.

Sulle condizioni psichiche di Sherlock Holmes, come risultano nei romanzi e nei racconti di Conan Doyle, l’investigatore sembrerebbe, in alcuni casi, rivelare un carattere con tendenze all’isteria, anche se questa sua peculiarità – prendendola per buona – è comunque quanto vogliamo continuare a credere, sulla base dei tanti luoghi comuni che caratterizzano questo genere di letteratura di cui Holmes è il protagonista indiscusso.

Difficile stabilire in che modo – nel progetto letterario dell’autore – l’uso della cocaina potrebbe essere un parametro condizionante del “caratteraccio” di Holmes. Tutto viene lasciato al quasi virgiliano ruolo di Watson che, in qualche caso, sembrerebbe una sorta di alter ego di Doyle, come lui medico.

Watson, ne Il segno dei quattro, vedendo l’investigatore che effettua le pratiche per iniettarsi la droga, domanda: “Cos’è oggi? Morfina o cocaina?”.

Ironica, secondo il carattere di Holmes, la risposta: “Cocaina, una soluzione del sette per cento. Vuole provarla?”.

Aggiungiamo un aspetto che non ci pare per nulla secondario, pur continuando a tener presente che parliamo di un personaggio prodotto dalla fantasia di un prolifico autore. Ci riferiamo alla notevoli conoscenze di chimica possedute dall’investigatore. Watson, in Uno studio in rosso, considera queste conoscenze “profonde” e, qua e là, negli altri racconti e romanzi, traspare in effetti l’utilizzo della chimica da parte dell’investigatore e con un modus operandi che lascia supporre una certa esperienza.

Ne consegue che un prodotto come la cocaina da parte le Holmes non poteva essere assunto senza la dovuta consapevolezza, viste le sue conoscenze “profonde” di chimica. Quindi, in parole povere, quando si iniettava la cocaina, Holmes era consapevole di utilizzare un prodotto con effetti facilmente prevedibili.

In realtà, ne Il segno dei quattro l’investigatore afferma: “Non posso vivere se non faccio lavorare il cervello. Quale altro scopo c'è nella vita? Ha mai veduto un mondo così grigio, deprimente, inutile? Guardi come la nebbia giallastra turbina nella strada e si sposta lentamente attraverso le case di un bruno grigiastro. Cosa ci può essere di più disperatamente prosaico e materiale? A che serve possedere delle facoltà, dottore, quando non si ha modo di esercitarle? Il crimine è una banalità, l'esistenza è una banalità, e sulla faccia della terra le uniche qualità che abbiano una qualunque funzione sono quelle più banali”. E ancora: “Posso fare a meno di stimolazioni artificiali. Ma aborrisco la monotona routine dell'esistenza. Ho un desiderio inestinguibile di esaltazione mentale. Ecco perché ho scelto questa mia particolare professione o, meglio, l' ho creata, poiché sono l'unico al mondo ad esercitarla”.

L’attività fisica e quella frenetica sul piano del lavoro, sostenuta dall’uso di droghe, finirono per ledere la sua salute, imponendogli dei periodi di riposo forzato, il che lo rendeva particolarmente nervoso e depresso. Così ne Il segno dei quattro: “La mia mente si ribella all’inattività. Datemi problemi, datemi lavoro, datemi il più astruso crittogramma o la più intricata analisi ed ecco mi sento nella mia giusta atmosfera. Allora posso fare a meno di stimolanti artificiali”; inoltre: I signori di Reigate (1893), Il piede del diavolo (1910); Il cliente illustre (1925).

E così tutta la vicenda tende a rastremarsi in direzione della solita questione: la psicologia, o forse sarebbe più corretto dire la problematica psicoanalitica di Sherlock Holmes.

All’origine l’uso e forse l’abuso della cocaina?

La risposta è forse celata nell’intersecarsi della vicenda holmesiana con le speculazioni di Freud [Sulla cocaina (1885)], binomio imperdibile per gli apocrifi, ma di scarso valore sul piano della filologia. Tutto ciò riesce, comunque, pur nel paradosso, a suggerire una connessione tra realtà e immaginario secondo un copione ricorrente tra gli appassionati di Scherlock Holmes.

Nel 1936 “Lancet” pubblicò un articolo dal titolo emblematico che può essere così tradotto “Sherlock Holmes era tossicodipendente?” (Anonimo, Was Sherlock Holmes a Drug Addict?, in “Lancet”, 2, 1936), giungendo alla conclusione che il noto investigatore si era di fatto preso gioco di Watson, lasciandogli credere di far uso di allucinogeni, quando in realtà non era così.

In tempi più recenti, W.H. Miller (1978) è giunto alla conclusione che Holmes non si sarebbe servito della cocaina, artefice di un deterioramento morale e fisico, bensì di un alcaloide della belladonna.

La questione sull’effettivo prodotto usato da Holmes è stato oggetto di un articolo particolarmente interessante del farmacologo W. Modell, che tra l’altro ha scritto: “la cocaina dà assuefazione ma non dipendenza fisica, per cui personalità forti come quelle di Holmes e Freud non ebbero difficoltà a controllarne l’uso” (1967).

In seguito, le domande si sono spostate dalla ricerca della tipologia di droga usata da Holmes, ai motivi che potrebbero aver determinato la necessità di servirsene. Di fatto due le ipotesi: una condizione maniaco-depressiva che era contrastata con l’assunzione della cocaina; oppure uno stato di malessere (depressione) scaturito dall’assenza di lavoro investigativo.

Giungere a una conclusione forse non serve a nulla e poi, semplicemente, la conclusione non è tanto scontata, visto che il nostro soggetto è il prodotto dell’immaginazione di uno scrittore geniale. E Holmes continua a essere il risultato di un’alchimia letteraria, anche quando sembrerebbe un personaggio reale. Insomma, non è così “Elementare Watson”…

 

  Bibliografia

  • Centini M., Gli allucinogeni tra storia, mistica e magia, Xenia, Milano 2011.

  • Bailly J.C. – Guimard J. P., L’esperienza allucinogena, Dedalo, Bari 1998.

  • Camilla G., Le piante sacre. Allucinogeni di origine vegetale, Nautilus, Torino 2003.

  • De Ropp E.R., Le droghe e la mente, Ciapanna Editore, Roma 1981.

  • Durand G., Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari 1987.

  • Eliade M., La nascita mistica, Morcelliana, Brescia 1980.

  • Frust P. T., Allucinogeni e cultura, Cesco Ciapanna Editore, Roma 1981.

  • Malizia E – Ponti H., Coca e cocaina, Newton & Compton, Roma 1995.

  • Malizia E. – Borgo S., Le droghe, Newton Compton, Roma 2006

(Autore: Massimo Centini, antropologo)

 

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