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La legione smarrita di Carre

di Simone Petrelli

Una tragedia, la morte del toro, che è recitata, più o meno bene, dal toro e dall'uomo insieme, ed in cui c'è pericolo per l'uomo, ma morte sicura per l'animale. Impossibile non ricordare Ernest Hemingway, e le pagine amare del suo Morte nel pomeriggio, quando si ha la ventura di assistere all’usanza forse più antica del villaggio. A metà strada tra una corrida in senso stretto ed un più ancestrale ed auspicabile concurso de recortadores – che a differenza della prima manifestazione non prevede affatto la morte del bovino per eccellenza – è proprio in quel costume antichissimo, la sfida dell’uomo al toro, che si concreta uno spirito combattivo popolare che è retaggio senza tempo. E senza luogo, visto che tra il villaggio in questione e l’Europa la distanza ammonta a più di 7mila chilometri. Ovviamente, non siamo in terra di Spagna. E nemmeno in Sudamerica. E’ un luogo, questo, che non ha proprio nulla a che vedere con il Vecchio Continente. Zhelaizhai, si chiama il villaggio. Contea di Yongchang, prefettura di Jinchang, provincia di Gansu.

                                                                                    simone 1.jpg (40340 byte)

                                                            La provincia cinese del Gansu (fonte: wikipedia.org)

Fissare un punto preciso su di uno spazio sconfinato presuppone l’utilizzo di un numero altrettanto esteso di coordinate. Non potrebbe essere altrimenti, per trovare un paesino sperduto nel territorio sconfinato del gigante cinese. Siamo ad un passo appena dalla Mongolia, sul confine meridionale che separa le terre – scarsamente – abitate a ridosso delle alture della Cina del nord-ovest dalla rigidità perfetta del Deserto di Gobi. Per trovare una città come si deve, Lanzhou, da qui bisogna percorrere 300 chilometri esatti, partendo dalle rovine dell’antica città di Li Quian sulle quali oggi riposa l’abitato di Zheilazhai. Ad oggi, sono ancora molti gli abitanti di questo villaggio che conoscono la lotta coi tori. La considerano un retaggio dello spirito combattivo degli antenati, e per questo la custodiscono – nelle mani o soltanto nella memoria - con l’affetto smisurato che si riserva a qualcosa di disperatamente proprio. Perché nei dintorni non c’è nessun altro che si dedichi a questo particolare tipo di pratica. Non sono viaggiatori, gli abitanti del Gansu. Molti non hanno neanche mai messo piede fuori dal piccolo distretto di Yongchang. Allora, essere detentori di una pratica di questo tipo,l che non possono aver importato e che ha radici tanto europee da confondere, deve significare per forza dell’altro. Il sospetto acquista ancor più peso se si comincia a riflettere sul fatto che qui – e solo qui - uomini e donne parlano con pronuncia sensibilmente diversa da quella degli altri abitanti del distretto. Usano suoni più retroflessi, più nasali. Seppelliscono i loro morti rivolgendone con cura la testa verso ovest, da sempre. Strano, molto strano. E poi, a guardarli bene non somigliano ai cinesi. E non sembrano nemmeno mongoli. Prendiamo Song Guorong. Song non ha più di una quarantina d’anni. E’ alto un metro e ottantadue. Ha il naso aquilino. E soprattutto ha una gran massa di capelli biondissimi che gli incornicia i lineamenti. “Da piccolo mio padre mi raccontava che i nostri antenati venivano da un paese lontano, laggiù” dice indicando confusamente l’ovest. Il suo interlocutore, un archeologo capitato a Zheilazhai che stava facendo due chiacchiere con lui, ha iniziato a trasalire. E non si è certo sentito meglio quando Song ha ripreso a narrare di come suo padre fosse in grado di provocare la stessa agitazione a causa non solo dei capelli dorati ma anche di un profondo paio di occhi azzurri che lo facevano assomigliare parecchio “agli europei visti sui giornali”. Song è ora un caso di studio internazionale. Esattamente come un centinaio di suoi compaesani che, secondo gli studiosi, celano nel loro DNA la chiave di un enigma sepolto da ben duemila anni. Un mistero che, forse, potrebbe gettare una nuova luce sui nessi più reconditi della storia, contribuendo a rimettere al suo posto un tassello importante e dimenticato dei contatti tra Europa ed Asia. Lo stesso tassello che, forse, potrebbe avere a che vedere con Gu Jianming. Anche Gu è nato e vive in Gansu, nel distretto di Yongchang, prefettura di Jinchang. Qualche anno fa, è diventato padre di una bellissima bambina. Sollevandola per la prima volta, tremante d’orgoglio, non è riuscito a trattenere un sussulto constatando che la piccola aveva qualcosa di strano, di inusuale. Una chioma foltissima, bionda come il grano. Anomalia neonatale? Probabile, ed infatti Gu appena qualche tempo dopo ha fatto tagliare i capelli alla figlia in attesa di vederli

rispuntare nerissimi e lucidi come si conviene ad una capigliatura da quelle parti. Niente da fare. Oggi, Gu ha terminato le spiegazioni da dare alla figlia circa il colore dei suoi capelli, e mentre i compagni di scuola della bambina seguitano a chiamarla “capelli gialli”, Gu scopre di aver terminato le ragioni da fornire anche a sé stesso. Anche perché né l’uomo né alcuno dei suoi compaesani hanno ancora la minima idea di chi sia Homer Dubs, Professore di Storia Sinica. La stragrande maggioranza degli abitanti del Gansu, cresciuti e modellati in osservanza ai dettami autarchici tanto radicati nell’area sin dall’éra maoista non può nemmeno indovinare dove si trovi l’Università di Oxford. La prestigiosa accademia tra le mura della quale, sin dal 1942, si sono svolte dettagliate ricerche focalizzate proprio sul Gansu in generale, e su Li Quian – o meglio Zheilazhai - in particolare. Il Professor Dubs sosteneva a spada tratta una teoria che per i più era quantomeno bizzarra. Se nella popolazione della zona si rilevavano tratti – ed usi – caucasici, poteva non essere tanto astruso supporre che si trattasse di realmente di epigoni di individui caucasici.

simone 2 (2).jpg (41421 byte) Alcuni scatti dei singolari abitanti di Zheilazhai (fonte: english.sina.com)

Come è possibile che degli europei si siano stanziati in Cina? Come tante altre storie, anche questa inizia nel passato remoto. Più precisamente all’epoca degli Unni. Nomadi e signori delle steppe, stanziatisi tra la Mongolia ed il nord della Cina, avevano costruito un regno possente che abbracciava anche il Gansu, la regione in cui sorgeva l’antica città di Li Quian. Proprio a Li Quian, dopo una scaramuccia, accerchiano e costringono alla resa un manipolo di strani soldati di passaggio. Uomini mai visti prima, che nonostante l’inferiorità numerica – sono appena 145 - danno parecchio filo da torcere agli infallibili arcieri nomadi a cavallo. Anzitutto, si barricano dietro palizzate di tronchi appuntiti che somigliano paurosamente ai rudimenti dei castra latini. Ancora, ricorrono ad un inquadramento tattico che la forma di una "scaglia di pesce". Un metodo che ricorda da vicino un altro modus operandi. La testuggine romana. Stupito dal valore indomito della schiera, ed ancor più dall’attitudine alla lotta per la quale un Unno non può che provare ammirazione, il condottiero dei nomadi, Jzh Jzh, decide di restituire la libertà ai suoi prigionieri. Anzi, li assolda come mercenari, includendo nel suo esercito le loro possenti braccia ed ancor più la loro tecnica ferrea. Ne fa un utilizzo continuato quanto spietato nella lotta contro i suoi nemici giurati della dinastia Han. La Biografia di Chen Yang (o Chen Tang) scritta da Ban Gu e contenuta nel testo degli Annali della dinastia imperiale, riporta una cronaca risalente al 36 a .C., che narra di uno scontro aspro tra le truppe cinesi di stanza nelle provincie occidentali e le schiere di Jzh Jzh, attestate nella roccaforte unna di Zhi Zhi. Dopo una epica battaglia sul vicino fiume Talas, i secondi vengono piegati e soverchiati. Ma il valore delle milizie schierate al fianco degli Unni è tale che perfino gli Han riconoscono loro l’affrancamento dalla prigionia, ed anzi concedono loro di stanziarsi in una fetta di territorio limitrofo. Il Corridoio Hexi, che è ricco di acque e strategicamente importante, ed è appena divenuto governatorato cinese. E’ qui che appena quindici anni dopo sorgerà Li Quian. Oggi l’antica città figlia della vittoria Han sugli Unni non esiste più. Divelta dal tempo, in parte, ed in parte sostituita dalle fondamenta di Zheilazhai e dal centinaio di abitanti della Repubblica Popolare Cinese che, a differenza dei loro connazionali, sembrano tutto tranne che cinesi. Alti. Biondi. A volte addirittura ricci. In molti casi, con occhi chiarissimi, verdi o azzurri. Sembrerebbero europei, mediterranei addirittura. Ma le cronache occidentali non riportano alcuna notizia di popolazioni stabilitesi in quell’angolo sperduto di mondo. O forse no? Nel 53 a .C. Marco Licinio Crasso è uno degli uomini più opulenti di Roma. Castigatore di Spartaco. Triumviro, e dunque sodale di invincibili della schiatta di Gaio Giulio Cesare e Gneo Pompeo Magno. Ma Crasso ha scarso fiuto guerresco. Nel triumvirato pesa poco. Al cospetto di Cesare e Pompeo sembra praticamente figlio di un dio minore. Per questo vorrebbe un  riscatto, la gloria per riequilibrare le sue sorti. La gloria sul campo di battaglia. Vuole il caso che all’epoca in Asia abbiano preso a fare baccano i Parti, che hanno inghiottito Iran ed Iraq, Armenia, Caucaso, Asia Centrale. Un castigo divino, che Roma teme neanche fosse la peste. Roma , ma non Crasso. Che è sufficientemente cieco da giudicarli codardi perché preferiscono affidare le sorti delle loro battaglie agli arcieri a cavallo, colpendo dalla distanza i nemici e facendone scempio. Crasso riceve in udienza tre nobili persiani. Sono orrendamente mutilati per colpa di un signore della guerra, un parto di nome Eran Spahbodh Rustaham Suren-Pahlav che si è preso i loro nasi, le labbra, le mani. Surena, lo chiamano i suoi sudditi.

Il sovrano dei Parti Surena (fonte: talentonellastoria.com)

E’ il nemico perfetto. Perfetto per Crasso, che vuole vendetta e gloria. Tanto da abbandonare l’Eufrate, la protezione naturale garantita dalle acque su di un fianco, ed ordinare alle sue schiere di marciare nel mezzo del deserto di Siria. Prenderanno di sorpresa i Parti accampati nel nulla. Ma Crasso è uno stolto. Non sa che i nobili lo hanno tradito, blandito, attirato in trappola. La guerra arriva in fretta, ma alle condizioni dei Parti. A Carre, in Turchia Orientale. Una disfatta orribile in cui 36mila tra legionari ed ausiliari romani pagheranno col sangue l’avventatezza del triumviro minore. Mentre l’armata di Roma arranca penosamente tra le sabbie, i Parti si fanno vivi. Crasso disperde le forze, spedendo in caccia suo figlio Publio Licinio al comando della cavalleria dei coscritti gallici. Tutti falciati in un lampo dai catafratti, la cavalleria pesante d’élite del re barbaro. Miracolosamente scampato alla morte, Licinio stesso non trova di meglio da fare che uccidersi per il disonore. Nessuno canta più, nell’accampamento romano. Poi arrivano i barbari, e con loro la fine. Sopravvivono in 5mila, agli ordini dell’indomito Cassio, l’ultimo e migliore degli ufficiali di Crasso. Il triumviro stesso è catturato come una fiera. Trascinato a forza di braccia al cospetto di Surena e della sua corte. Verrà giustiziato in maniera esemplare, colando oro fuso nella sua bocca spalancata. Marcantonio, anni dopo, attaccò a sua volta i Parti per vendicare l’onore di Roma, mentre un trentennio più tardi fu la volta di Augusto occuparsi dei barbari, giungendo ad un accordo per riavere indietro aquile, labari e perfino i prigionieri rimasti. I Parti riconsegnarono praticamente tutto. Tranne gli uomini, affermando di non aver mai preso prigionieri. Eccola, la stupida, vana gloria di Crasso. Eccola, la fine della storia delle sue legioni. Ma ecco l’inizio della leggenda. Quella riportata da Plutarco, che racconta come durante la carneficina non tutti i legionari abbiano incontrato la morte. Pochissimi sarebbero riusciti a mettersi rocambolescamente in salvo, intraprendendo un viaggio della speranza in terre sconosciute, incalzati dalla morte che li aveva sfiorati a Carre. Una legione perduta. Proprio come quelle celebrate nel pittoresco romanzo partorito dalla penna del nostro Valerio Massimo Manfredi. Un manipolo di superstiti che avrebbe ripiegato disperatamente verso il cuore d’Asia. Attraversando l’Uzbekistan e puntando poi a nord. Verso il Deserto di Gobi ed il confine mongolo. Fino al Gansu. Fino a Li Quian. Diciassette lunghi anni dopo la disfatta, nel 36 prima di Cristo, le orme della legione scomparsa nel nulla si perdono misteriosamente. Forse, per riemergere non molto tempo fa, a migliaia di chilometri da casa e dall’Europa. Nel 1992, le Nazioni Unite hanno patrocinato la "Spedizione Internazionale della Via della Seta", con lo scopo di restituire smalto al leggendario itinerario commerciale cui il nome del nostro Marco Polo appare inscindibilmente legato.

                                                         La Via della Seta (fonte: wikipedia.org)

In occasione di uno scavo presso l'antica città di Luanniao, 100 chilometri a ovest del capoluogo del distretto Yongchang, hanno riscontrato assonanze architettoniche incredibilmente al di fuori del contesto cinese. L'ubicazione degli edifici rifletteva infatti, ed in maniera piuttosto evidente, lo stile in voga dell'antica Roma. Alcuni etichettarono frettolosamente il luogo la Pompei d'Oriente. E’ possibile che abbiano ragione? Quanto c’è dell’antica Roma in questo angolo remoto di Cina? Frattanto, l’università di Lanzhou ha condotto alcuni test sul DNA dei locali. Il 46 per cento di loro ha un patrimonio genetico differente da quello cinese. Sembrerebbe anzi più vicino a quello europeo. Eppure, per validare il riscontro – e di qui le teorie del Professor Dubs – mancano ancora test maggiormente sofisticati sul cromosoma Y. Così, il dubbio sui misteriosi antenati degli abitanti di Zheilazhai intanto permane. Verrebbe da chiedere lumi a quel centinaio di strani cinesi, se non si trattasse di probabili, immemori discendenti.

(Autore: Simone Petrelli)

 

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