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Misteri all’ombra di San Pietro

Martirio ed orrore nel Camposanto Teutonico

                                                                                   di Simone Petrelli
 

 

 

24 aprile 1555. Marcello II è salito al Soglio da appena due settimane, il 10 del mese. 222esimo Papa della Chiesa Cattolica. 130esimo sovrano dello Stato Pontificio. Papa Re nato maceratese col nome di Marcello Cervini, appartenente alla casata montepulcianese degli Spannocchi che lo fece crescere in quel di Siena, ha deciso e scelto di conservare il suo nome originale anche all’atto dell’elezione pontificia. Figlio di un addetto della Penitenzieria Apostolica, il conte Riccardo Cervini, Marcello è un uomo colto, un umanista particolarmente versato nelle traduzioni dal latino e dal greco. Per il Papa dé Medici, Clemente VII, ha terminato la correzione del calendario che suo padre prima di lui aveva cominciato. Distinguendosi sul campo, ha catturato facilmente la simpatia del Cardinal Farnese che diverrà Paolo III, che lo ha nominato aiutante del nipote Alessandro. La nomina di questi a segretario di Stato ha poi proiettato Marcello ai vertici della diplomazia vaticana. Vescovo di Nicastro in contumacia, è diventato presto cardinale di Santa Croce in Gerusalemme, poi vescovo di Reggio Emilia e, da qui, di Gubbio. Insieme a Giovanni Maria Ciocchi del Monte e Reginaldo Polo, Marcello è stato nominato Legato della Sede Apostolica nella prima, delicata fase del Concilio di Trento, presiedendo il sinodo con la perfetta padronanza, l’acume e le spiccate capacità intellettuali che gli sono valse una nuova nomina, quella a Bibliotecario Apostolico. Presidente della Commissione per la riforma ecclesiastica, è stato rimosso per aver criticato la politica nepotista del pontefice. Eppure, non tutti hanno osteggiato nel tempo la sua intransigenza. C’è stato un cardinale di nome Gian Pietro Carafa cui quello zelante religioso non è dispiaciuto affatto. Frattanto, spirato Papa Giulio III, ai cardinali riunitisi in conclave è cominciata a balenare in mente l’ipotesi di acclamare un cardinale dall’alta reputazione, di granitica integrità morale ed altrettanto radicate doti spirituali. Il ritratto più fedele del Cardinal Cervini.

Marcello II (fonte: wikipedia.org)

Che diventa Papa a seguito di un conclave particolare, per la cronaca il più breve della storia. Solo 4 giorni di segregazione serrata. Per arrivare ad eleggere, altra stranezza, un Pontefice di appena 54 anni. Perfino i festeggiamenti dopo la nomina, tutto sommato, sono stati singolari, distinguendosi per il carattere particolarmente dimesso del giubilo che, dopo tutto, coincide con il periodo di Quaresima. Mortalmente avverso all’idea stessa di nepotismo, per dare il giusto esempio vieta perfino ai suoi parenti, in prima battuta al fratello Alessandro ed alla sorella Cinzia - che genererà il futuro San Roberto Bellarmino – di raggiungerlo per i festeggiamenti. Il denaro occorrente per la sua incoronazione viene devoluto per sua diretta volontà ai poveri. E Marcello, appena entrato nei sacri palazzi, ordina di ridurre drasticamente il lusso vigente (tutt’altro che confacente con un regno dello spirito in terra) e le considerevoli spese proprie della corte papale (storica rimane la sua proposta di abolire in tronco la Guardia Svizzera). Per meglio opporsi alla Riforma protestante sottraendole pretesti per moltiplicare le sue già considerevoli accuse nei confronti di Roma. Marcello è di questa fatta. Un uomo tutto d'un pezzo. Non avrebbe comunque potuto essere altrimenti. Perché anche e soprattutto da Papa rimane quell’uomo austero che è sempre stato. In perfetta osservanza con quanto si richiede ad un buon esponente del partito riformatore. E’ proprio per questo che, una volta insediato, inizia subito a lavorare. Prepara una bolla che al contempo è un immenso progetto di sfida e di riforma non solo politica – e già sarebbe moltissimo – ma addirittura culturale, perché in ultimo mira a modificare la mens religiosa del tempo. Perché Marcello II è il primo Papa della Controriforma. Ed il primo cui tocca in sorte di assistere all’unico caso di omicidio rituale mai registrato in tutta la storia di Roma. In terra eminentemente sacra, nella Piazza dei Protomartiri che sorge tra San Pietro e la nuova Aula delle Udienze, si trova un lotto di terra circondato da un muro tanto alto da sviare attenzioni indiscrete. La recinzione fa il suo lavoro egregiamente, a dire la verità, perché il più delle volte i frettolosi che passano da quelle parti non fanno caso al terreno e passano oltre. Ci vuole in effetti un po’ di fortuna per notare la cancellata in ferro, e quell’iscrizione latina che svela l’arcano del lotto misterioso. Teutones in pace, recita. Perché quello è il luogo pieno di storia che il popolo ha imparato a conoscere come Campo Santo Teutonico.

Il Camposanto Teutonico di Roma (fonte: blogspot.it)

 

La più antica fondazione nazionale tedesca di tutta l’Urbe. Nell’antichità classica, questo fu un luogo di autentico e spietato martirio, visto che Nerone aveva voluto l’area per farne un circo in cui calamitare - e sviare - l’attenzione del volgo, distogliendolo così da pericolose tentazioni di sedizione nei confronti delle trame poste in essere dalla sua arcigna tirannide. L’area, citata per la prima volta nelle cronache nel 799 come sede di una Schola Francorum che ancora oggi riecheggia nell’immagine in maiolica ornante una parete dell’edificio attiguo al terreno di sepoltura e dedicata allo storico fondatore Carlo Magno, riceve contorni più nitidi solo secoli più tardi, in occasione dell’Anno Santo 1450. In quest’occasione, infatti, il confluire di nutrite torme di pellegrini nei luoghi sacri della capitale smuove gli animi - ed ancor più le tasche - di potenti porporati tedeschi che, riunitisi quattro anni dopo nella Confraternita dei Poveri Morti, provvedono a concertare azioni di opportuna sistemazione ed adeguata ricostruzione nei confronti sia della proprietà che della limitrofa chiesa, entrambe gravemente compromesse dall’incuria e dalla generale mancanza di interventi nel corso dei secoli. Proprio per l’edificio di culto, l’ultimo quarto del XV secolo vede infatti l’opera di restauro acconciare la chiesa secondo i canoni allora in voga proprio in Germania, quelli propri della canonica ad aula. Il camposanto, invece, apparirà suddiviso in quattro differenti aiuole - in accordo alla moda del Seicento – che la leggenda narra siano state riempite con terra portata a Roma direttamente dalle sacre propaggini del Calvario. Così il Camposanto Teutonico, più antico cimitero funzionante presente nell’Urbe, riposa ormai da una dozzina di secoli ad un passo appena dal sepolcro di Pietro. Al visitatore che si attardi in questo angolo di suolo vaticano, non sfugge oggi il suo assetto artistico monumentale, con i possenti marmi che, dalla metà del Settecento, l’arciconfraternita dei Teutonici dispone in un perimetro circoscritto dalle dolorose stazioni della Via Crucis. Sui muri che sostengono le aiuole, poi, si adagiano ancora i ruderi di sculture di antica memoria, che tutte sembrano tendere verso l’area centrale del fondo, quella in cui dal 1858 spicca l’ombra maestosa e solenne del Santo Crocifisso bronzeo firmato da uno scultore nato a Münster e presto adottato dall’Urbe, lo stesso Wilhelm Achtermann le cui tracce ancora spiccano nella romanissima Chiesa di Trinità dei Monti così come nella canonica del Crocifisso di Rocca di Papa. Grande è l’effetto per chi si avventura tra queste lastre ancestrali, scorrendo memorie che spaziano dal 700 d.C. al secolo scorso. Così, tra la Cappella della Flagellazione e le statue dei Santi Girolamo ed Ambrogio, Gregorio ed Agostino, Padri della Fede e spoglie residue della scomparsa Chiesa di Santa Elisabetta dei Teutonici, un tempo presso Sant’Andrea della Valle ed abbattuta nel 1886 per far posto all’arteria nascente del Corso Vittorio, può accadere di imbattersi nelle lapidi di eccelsi pittori come il von Rhoden ed il Koch, o di regnanti del calibro di Charlotte Friederike von Meklenburg-Schwerin, regina madre di Danimarca. O magari sostare presso i luoghi di riposo di statisti come il Monsignor Xavier de Merode vicino a Pio IX, o di suor Pascalina Lehnert, assistente di Papa Pio XII da quando questi era ancora il fervente cardinal Pacelli. Casa del silenzio. Giardino della fede. Un angolo di quiete immutabile nell’imperituro trambusto romano. Impermeabile. Imperturbabile. Un viatico dell’eterna pace, che richiama l’incisione deputata ad accogliere i passanti dall’alto della cancellata in ferro. Teutones in pace, recita il varco. Eppure, la vicenda che ci riporta a Marcello II, e che si lega a doppio filo proprio a questo frammento di Roma, ha ben poco a vedere con la pace. Molto invece si avvicina a ben altro e più sinistro concetto. Quello di orrore, per la precisione. Questa vicenda comincia con Marcello II. Pastore delle genti ed ultimo pontefice a non cambiare nome all'atto dell'elezione - confermando peraltro la leggenda popolare che vuole un pontificato brevissimo per i papi che conservino il proprio, visto che Papa Cervini passa a miglior vita dopo appena 23 giorni di pontificato, secondo alcuni a causa di un colpo apoplettico mentre altri ne imputano la scomparsa all’incancrenirsi di una piaga segreta di natura maligna. A due settimane dalla sua elezione, il 24 aprile 1555, Marcello II medita la sua ardita riforma, che forse segnerà lo scarto decisivo sul nepotismo che rovina la Chiesa di Cristo corrompendone i principi più alti. E’ un giorno come tanti quando una gran folla si raduna di fronte al Camposanto dei tedeschi. Rumoreggiano. Trattenuti a stento dalla sbirraglia del Papa Re. Sobillati da un convertito dall’ebraismo, che altro non fa se non sputare veleno sulla sua stessa stirpe. Perché quel che si trova dentro al cimitero, in bella mostra per chiunque varchi le mura della discrezione, è qualcosa di tanto grave, sinistro, orribile da poter scardinare l’ordine costituito. Specialmente nella città santa il cui trono di regnante è retto dal sommo Vicario di Cristo. Nel bel mezzo della distesa di lapidi del Camposanto Teutonico campeggia una croce. E non si tratta di quella bronzea che tre secoli dopo comparirà più o meno nello stesso posto. E’ una rozza croce di legno, che qualcuno ha sistemato con cura sul luogo con tutto il suo macabro contorno. Perché inchiodato alla croce c’è un corpo. Il cadavere di un bambino, per la precisione. Crocifisso con perizia, le carni inchiodate al legno grezzo. Seminudo, il corpicino ricoperto degli infiniti tagli in cui una ferocia inaudita ha saputo tramutare il concetto stesso di sevizia. Una cosa così fa un gran rumore. Un chiasso che arriva in fretta nelle stanze del Papa. E’ il Cardinal Farnese, Alessandro il Giovane, a recare la notizia formale e ferale al Papa che sente un brivido profondo incrinare il granito della sua risolutezza, mentre qualcosa in quella vicenda losca che non riesce a smettere di riesaminare gli riporta alla mente un fatto avvenuto non molto tempo prima.

Il Cardinale Alessandro Farnese, olio su tela (cm 97 x 73) di Tiziano Vecellio, 1545 – 1546 (fonte: polomusealenapoli.beniculturali.it)

 

La Pasqua di Sangue del Trentino. Il 23 marzo 1475, la sera del Giovedì Santo a Trento è funestata dalla misteriosa scomparsa del figlio di un conciapelli piuttosto rinomato in città. Simonino, si chiama il bambino, che ad appena due anni e mezzo è docile e tutt’altro che discolo. Non sarebbe proprio il tipo da allontanarsi di casa per qualche marachella, insomma. E questo il padre Andrea lo sa bene. Dunque raduna familiari e conoscenti ed inizia le ricerche, che si fanno sempre più frenetiche finché, nelle prime ore del giorno di Pasqua, il corpo senza vita del bambino non viene rinvenuto parzialmente ricoperto dal fango di una roggia, un anonimo fossato colmo d’acqua che costeggia un viale della città. Non si tratta di un incidente. Le ferite che la salma presenta sono troppe. Troppo crudeli per essere casuali. Chi può essere stato? Perché? E come mai quel corpo è così vicino alla casa abitata dagli unici quindici ebrei residenti a Trento – nella zona dell'attuale piazza della Mostra? A Trento le redini della Chiesa sono in mano a Giovanni Hinderbach, che oltre ad essere vescovo è anche la principale autorità politica della zona. E soprattutto è un convinto assertore delle tesi di un frate di nome Bernardino da Feltre. Che infarcisce le sue accorate prediche con infuocate stille di antisemitismo. Per questo, i pochi metri che separano il fosso in cui giace Simonino dalla casa degli ebrei rappresentano per il signorotto porporato molto più che un sospetto radicato. Germania prima ed Italia settentrionale poi, come se non bastasse, sono divenute ricettacolo di consistenti comunità qui riparate dall’Europa centrale. Sono gli ashkenaziti, che all’interno del credo ebraico rappresentano la corrente più incline a mantenere e tutelare un’identità culturale tanto forte da entrare sovente in collisione col mondo esterno. L’ashkenazita è diffidente per sua natura, e non potrebbe essere altrimenti viste le consistenti ondate persecutorie cui nel tempo è stato sottoposto. Ma la sua chiusura è un’arma a doppio taglio, perché così facendo i suoi rapporti con i locali, meno problematici di quanto già visto in area tedesca, finiscono per inasprirsi. La morte di Simonino è la miccia che fa detonare la bomba sociale del trentino. Complice il poco mascherato antisemitismo di Hinderbach, il quale ha buon gioco nel rivolgere alla comunità ebraica locale accuse ufficiali di assassinio. Anzi, omicidio rituale. Simonino è morto durante un oscuro rito magico giudaico.

Il Martirio del Beato Simonino che compare sull’esterno di Palazzo Salvadori a Trento (fonte: wikipedia.org)

Lo hanno sacrificato per raccoglierne il sangue, da utilizzare poi per le azzime di Pasqua. Nel clamore della folla, i quindici vengono arrestati e torturati con foga. Finché non confessano la loro responsabilità nell’accaduto. Il più giovane di essi ha appena quindici anni. Il più vecchio arriva ai novanta. Perfino Sisto IV si oppone alla barbarie, avanzando tra l’altro dubbi sostanziali sulla tesi dell’accusa. Invia di corsa un legato a Trento. Ma non serve a nulla. Nel giro di poche ore quindici nuove tombe spuntano a Trento, pronte ad accogliere il loro sinistro fardello, mentre il resto della comunità viene spedito lontano dai confini della regione. Dodici degli accusati vengono bruciati. Due si convertono, e ricevono una più clemente decapitazione solenne. Solo una donna, Bruna, resiste più a lungo alla tortura e fa sì che lo zelo dei persecutori colpisca con più veemenza, tanto da ucciderla sul posto. Ma appena prima di spirare la donna confessa e si pente, finendo assolta dal peccato e per questo accolta dalla terra benedetta. L’innocente Simonino, intanto, nonostante il Papa in persona ne abbia proibito al beatificazione solenne, diventa presto oggetto di devozione popolare. Il volgo lo festeggia ed acclama da Trento fino a Brescia - la Passione di San Simone, la chiamano - ed ogni dieci anni un corteo solenne si snoda per le vie del suo paese natìo, recando seco quelli che vengono ritenuti gli strumenti di sevizie impiegati dagli empi per sottrarre la vita all’innocente. Ferri di macelleria. Aghi per cavare il sangue. Perfino dadi per estrarre a sorte tra i carnefici i vari compiti. Tutto questo accade dal 1475, e quando Marcello II si imbatte ottanta anni dopo in quella vicenda tanto oscura e similare, non riesce proprio a non rabbrividire. Perché teme che la sua posizione si riduca a quella di Papa Sisto, che ha strepitato invano contro il massacro. Può anzi finire peggio, perché allora Sisto era lontano dal teatro dell’orrore. Questa volta, invece, il danno si è consumato sotto gli occhi del Papa. Ed il sangue ha iniziato a scorrere proprio nel suo giardino privato. Forse non è troppo tardi. In fondo, il Cardinal Farnese è scaltro quanto basta. Marcello gli ordina di correre al Camposanto, portando una parte della guardia con sé. Il Cardinale si fa largo tra gli scalmanati, finché non si trova di fronte il converso che li sta sobillando, ingiuriando grandemente contro il suo stesso sangue di ebreo. Chiama la sua gente detrattori ed assassini. Maghi e negromanti. Li maledice con insistenza folle. Il Farnese capisce che l’ordine passa attraverso quel capopopolo di paglia, e lo fa arrestare dai suoi sbirri. Poi arriva al cospetto del bambino appeso in bella mostra. Inerte nel candore squallido di un trapasso infame. C’è un silenzio innaturale attorno. Fuori dal cancello, invece, il volgo è un tappeto informe di braccia e mani, gambe e reni che si agitano senza sosta. Attendono uno spettacolo su cui concentrare la loro rabbia di popolo. Il cardinale capisce che non può sperare di sottrarre alla vista della gente quel corpicino martoriato. Fa sradicare la croce, e depone le spoglie del ragazzino su di un carro. Poi lo fa portare lentamente in processione, mentre attorno il popolo ammutolisce alla vista dell’innocenza violata. Il Farnese non è uno sciocco, dicevamo. Mostra consapevolmente l’orrore alla gente, perché dalle sue indagini ancora non è venuto fuori alcunché sulla vittima. Quel bambino massacrato non si sa proprio chi sia. Non un padre si è fatto avanti a reclamarlo. Nessuna madre o sorella ne ha lamentato la scomparsa. E questa è già una gran differenza rispetto ai fatti di Trento. Forse la catastrofe si può ancora evitare, dopo tutto. Il Farnese vuole vederci chiaro. E va in processione dai capi della comunità ebraica romana, convincendosi che non possono entrarci nulla. Il carro si ferma nella pubblica piazza, dove dall’alba del giorno successivo il piccolo cadavere viene deposto in attesa che qualcuno lo riconosca. Un medico si fa incontro agli sbirri. Afferma di conoscere la vittima, che a suo parere è il figlio di un mercante spagnolo che ha curato qualche tempo prima. Il Cardinale ha un brutto presentimento. E mentre ancora tutto tace corre a casa del mercante, si attacca al portone mentre nessuno risponde ai suoi colpi forsennati. Il mercante è morto qualche giorno prima, gli dicono alcuni. Proprio come ha fatto anni fa la moglie. L’unico figlio della coppia, erede delle fortune del padre, è stato affidato da questi in punto di morte al suo più caro amico. Ecco il colpevole. Farnese riporta tutto al Papa, che spicca il mandato d’arresto e fa interrogare l’uomo. Non servono nemmeno le torture, bastano le maniere forti e qualche minaccia per far confessare al falso amico il crimine che lo spedisce diritto alla forca. Ha seviziato lui il bambino, ultimo ostacolo che si frapponeva fra lui e quel pugno di danari che ha nascosto in casa e che forse gli avrebbero fatto cambiare vita. Lo ha visto spirare tra atroci spasmi, acuendo il suo dolore e riempiendosi le viscere man mano che assisteva al venir meno delle sue giovani forze. Conscio del clima antigiudaico caratteristico dell’epoca, ha architettato quella farsa macabra che riecheggia un orrore nemmeno troppo antico, e non certo lontano, per allontanare da sé ogni sospetto e scaricare la colpa sul capro espiatorio per eccellenza. Il regno del Papa viene sgravato dall’incomoda presenza dell’omicida con gran trambusto e sommo clamore. Con la massima solennità possibile. Affinché il popolo sappia che, questa volta, non c’è stato rituale di sorta, né culto sinistro da soddisfare. Nessuna magia in funzione anticristiana, né orribile feticcio umano. Qui si tratta solo e soltanto di perfidia ed ignominia. E di un’altra, misera vita divelta in boccio. Una vita recisa che qualcuno ha pensato di affiggere, macabro monumento di carne, nel bel mezzo del Camposanto più antico dell’Urbe per turbarne la pace più sacra. In parte il piano ha sortito il suo effetto. Perché se la minaccia più immediata è stata sventata, con la repentina scomparsa di Marcello II, appena 23 giorni dopo la sua folgorante elezione, la successiva nomina al Soglio di Pietro del Cardinal Gian Pietro Carafa, col nome di Paolo IV, spalancherà le porte ad un ulteriore e ben più radicale giro di vite alle misure restrittive e segregazioniste della Chiesa contro la Natione Hebraea.

 (Autore: Simone Petrelli)

 

 

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