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      aprile 1555. Marcello II è salito al Soglio da appena due settimane, il
      10 del mese. 222esimo Papa della Chiesa Cattolica. 130esimo sovrano dello
      Stato Pontificio. Papa Re nato maceratese col nome di Marcello Cervini,
      appartenente alla casata montepulcianese degli Spannocchi che lo fece
      crescere in quel di Siena, ha deciso e scelto di conservare il suo nome
      originale anche all’atto dell’elezione pontificia. Figlio di un
      addetto della Penitenzieria Apostolica, il conte Riccardo Cervini,
      Marcello è un uomo colto, un umanista particolarmente versato nelle
      traduzioni dal latino e dal greco. Per il Papa dé Medici, Clemente VII,
      ha terminato la correzione del calendario che suo padre prima di lui aveva
      cominciato. Distinguendosi sul campo, ha catturato facilmente la simpatia
      del Cardinal Farnese che diverrà Paolo III, che lo ha nominato aiutante
      del nipote Alessandro. La nomina di questi a segretario di Stato ha poi
      proiettato Marcello ai vertici della diplomazia vaticana. Vescovo di
      Nicastro in contumacia, è diventato presto cardinale di Santa Croce in
      Gerusalemme, poi vescovo di Reggio Emilia e, da qui, di Gubbio. Insieme a
      Giovanni Maria Ciocchi del Monte e Reginaldo Polo, Marcello è stato
      nominato Legato della Sede Apostolica nella prima, delicata fase del
      Concilio di Trento, presiedendo il sinodo con la perfetta padronanza,
      l’acume e le spiccate capacità intellettuali che gli sono valse una
      nuova nomina, quella a Bibliotecario Apostolico. Presidente della
      Commissione per la riforma ecclesiastica, è stato rimosso per aver
      criticato la politica nepotista del pontefice. Eppure, non tutti hanno
      osteggiato nel tempo la sua intransigenza. C’è stato un cardinale di
      nome Gian Pietro Carafa cui quello zelante religioso non è dispiaciuto
      affatto. Frattanto, spirato Papa Giulio III, ai cardinali riunitisi in
      conclave è cominciata a balenare in mente l’ipotesi di acclamare un
      cardinale dall’alta reputazione, di granitica integrità morale ed
      altrettanto radicate doti spirituali. Il ritratto più fedele del Cardinal
      Cervini. 
        
      
      
      Marcello
      II (fonte: wikipedia.org) 
      Che
      diventa Papa a seguito di un conclave particolare, per la cronaca il più
      breve della storia. Solo 4 giorni di segregazione serrata. Per arrivare ad
      eleggere, altra stranezza, un Pontefice di appena 54 anni. Perfino i
      festeggiamenti dopo la nomina, tutto sommato, sono stati singolari,
      distinguendosi per il carattere particolarmente dimesso del giubilo che,
      dopo tutto, coincide con il periodo di Quaresima. Mortalmente avverso
      all’idea stessa di nepotismo, per dare il giusto esempio vieta perfino
      ai suoi parenti, in prima battuta al fratello Alessandro ed alla sorella
      Cinzia - che genererà il futuro San Roberto Bellarmino – di
      raggiungerlo per i festeggiamenti. Il denaro occorrente per la sua
      incoronazione viene devoluto per sua diretta volontà ai poveri. E
      Marcello, appena entrato nei sacri palazzi, ordina di ridurre
      drasticamente il lusso vigente (tutt’altro che confacente con un regno
      dello spirito in terra) e le considerevoli spese proprie della corte
      papale (storica rimane la sua proposta di abolire in tronco la Guardia
      Svizzera). Per meglio opporsi alla Riforma protestante sottraendole
      pretesti per moltiplicare le sue già considerevoli accuse nei confronti
      di Roma. Marcello è di questa fatta. Un uomo tutto d'un pezzo. Non
      avrebbe comunque potuto essere altrimenti. Perché anche e soprattutto da
      Papa rimane quell’uomo austero che è sempre stato. In perfetta
      osservanza con quanto si richiede ad un buon esponente del partito
      riformatore. E’ proprio per questo che, una volta insediato, inizia
      subito a lavorare. Prepara una bolla che al contempo è un immenso
      progetto di sfida e di riforma non solo politica – e già sarebbe
      moltissimo – ma addirittura culturale, perché in ultimo mira a
      modificare la mens religiosa del
      tempo. Perché Marcello II è il primo Papa della Controriforma. Ed il
      primo cui tocca in sorte di assistere all’unico caso di omicidio rituale
      mai registrato in tutta la storia di Roma. In terra eminentemente sacra,
      nella Piazza dei Protomartiri che sorge tra San Pietro e la nuova Aula
      delle Udienze, si trova un lotto di terra circondato da un muro tanto alto
      da sviare attenzioni indiscrete. La recinzione fa il suo lavoro
      egregiamente, a dire la verità, perché il più delle volte i frettolosi
      che passano da quelle parti non fanno caso al terreno e passano oltre. Ci
      vuole in effetti un po’ di fortuna per notare la cancellata in ferro, e
      quell’iscrizione latina che svela l’arcano del lotto misterioso. Teutones
      in pace, recita. Perché quello è il luogo pieno di storia che il
      popolo ha imparato a conoscere come Campo Santo Teutonico. 
      
      
        
      Il
      Camposanto Teutonico di Roma (fonte: blogspot.it) 
        
      La
      più antica fondazione nazionale tedesca di tutta l’Urbe.
      Nell’antichità classica, questo fu un luogo di autentico e spietato
      martirio, visto che Nerone aveva voluto l’area per farne un circo in cui
      calamitare - e sviare - l’attenzione del volgo, distogliendolo così da
      pericolose tentazioni di sedizione nei confronti delle trame poste in
      essere dalla sua arcigna tirannide. L’area, citata per la prima volta
      nelle cronache nel 799 come sede di una Schola Francorum che ancora oggi riecheggia nell’immagine in
      maiolica ornante una parete dell’edificio attiguo al terreno di
      sepoltura e dedicata allo storico fondatore Carlo Magno, riceve contorni
      più nitidi solo secoli più tardi, in occasione dell’Anno Santo 1450.
      In quest’occasione, infatti, il confluire di nutrite torme di pellegrini
      nei luoghi sacri della capitale smuove gli animi - ed ancor più le tasche
      - di potenti porporati tedeschi che, riunitisi quattro anni dopo nella
      Confraternita dei Poveri Morti, provvedono a concertare azioni di
      opportuna sistemazione ed adeguata ricostruzione nei confronti sia della
      proprietà che della limitrofa chiesa, entrambe gravemente compromesse
      dall’incuria e dalla generale mancanza di interventi nel corso dei
      secoli. Proprio per l’edificio di culto, l’ultimo quarto del XV secolo
      vede infatti l’opera di restauro acconciare la chiesa secondo i canoni
      allora in voga proprio in Germania, quelli propri della canonica ad aula.
      Il camposanto, invece, apparirà suddiviso in quattro differenti aiuole -
      in accordo alla moda del Seicento – che la leggenda narra siano state
      riempite con terra portata a Roma direttamente dalle sacre propaggini del
      Calvario. Così il Camposanto Teutonico, più antico cimitero funzionante
      presente nell’Urbe, riposa ormai da una dozzina di secoli ad un passo
      appena dal sepolcro di Pietro. Al visitatore che si attardi in questo
      angolo di suolo vaticano, non sfugge oggi il suo assetto artistico
      monumentale, con i possenti marmi che, dalla metà del Settecento,
      l’arciconfraternita dei Teutonici dispone in un perimetro circoscritto
      dalle dolorose stazioni della Via Crucis. Sui muri che sostengono le
      aiuole, poi, si adagiano ancora i ruderi di sculture di antica memoria,
      che tutte sembrano tendere verso l’area centrale del fondo, quella in
      cui dal 1858 spicca l’ombra maestosa e solenne del Santo Crocifisso
      bronzeo firmato da uno scultore nato a Münster e presto adottato
      dall’Urbe, lo stesso Wilhelm Achtermann le cui tracce ancora spiccano
      nella romanissima Chiesa di Trinità dei Monti così come nella canonica
      del Crocifisso di Rocca di Papa. Grande è l’effetto per chi si
      avventura tra queste lastre ancestrali, scorrendo memorie che spaziano dal
      700 d.C. al secolo scorso. Così, tra la Cappella della Flagellazione e le
      statue dei Santi Girolamo ed Ambrogio, Gregorio ed Agostino, Padri della
      Fede e spoglie residue della scomparsa Chiesa di Santa Elisabetta dei
      Teutonici, un tempo presso Sant’Andrea della Valle ed abbattuta nel 1886
      per far posto all’arteria nascente del Corso Vittorio, può accadere di
      imbattersi nelle lapidi di eccelsi pittori come il von Rhoden ed il Koch,
      o di regnanti del calibro di Charlotte Friederike von Meklenburg-Schwerin,
      regina madre di Danimarca. O magari sostare presso i luoghi di riposo di
      statisti come il Monsignor Xavier de Merode vicino a Pio IX, o di suor
      Pascalina Lehnert, assistente di Papa Pio XII da quando questi era ancora
      il fervente cardinal Pacelli. Casa del silenzio. Giardino della fede. Un
      angolo di quiete immutabile nell’imperituro trambusto romano.
      Impermeabile. Imperturbabile. Un viatico dell’eterna pace, che richiama
      l’incisione deputata ad accogliere i passanti dall’alto della
      cancellata in ferro. Teutones in
      pace, recita il varco. Eppure,
      la vicenda che ci riporta a Marcello II, e che si lega a doppio filo
      proprio a questo frammento di Roma, ha ben poco a vedere con la pace.
      Molto invece si avvicina a ben altro e più sinistro concetto. Quello di orrore,
      per la precisione. Questa vicenda comincia con Marcello II. Pastore delle
      genti ed ultimo pontefice a non cambiare nome all'atto dell'elezione -
      confermando peraltro la leggenda popolare che vuole un pontificato
      brevissimo per i papi che conservino il proprio, visto che Papa Cervini
      passa a miglior vita dopo appena 23 giorni di pontificato, secondo alcuni
      a causa di un colpo apoplettico mentre altri ne imputano la scomparsa
      all’incancrenirsi di una piaga segreta di natura maligna. A due
      settimane dalla sua elezione, il 24 aprile 1555, Marcello II medita la sua
      ardita riforma, che forse segnerà lo scarto decisivo sul nepotismo che
      rovina la Chiesa di Cristo corrompendone i principi più alti. E’ un
      giorno come tanti quando una gran folla si raduna di fronte al Camposanto
      dei tedeschi. Rumoreggiano. Trattenuti a stento dalla sbirraglia del Papa
      Re. Sobillati da un convertito dall’ebraismo, che altro non fa se non
      sputare veleno sulla sua stessa stirpe. Perché quel che si trova dentro
      al cimitero, in bella mostra per chiunque varchi le mura della
      discrezione, è qualcosa di tanto grave, sinistro, orribile da poter
      scardinare l’ordine costituito. Specialmente nella città santa il cui
      trono di regnante è retto dal sommo Vicario di Cristo. Nel bel mezzo
      della distesa di lapidi del Camposanto Teutonico campeggia una croce. E
      non si tratta di quella bronzea che tre secoli dopo comparirà più o meno
      nello stesso posto. E’ una rozza croce di legno, che qualcuno ha
      sistemato con cura sul luogo con tutto il suo macabro contorno. Perché
      inchiodato alla croce c’è un corpo. Il cadavere di un bambino, per la
      precisione. Crocifisso con perizia, le carni inchiodate al legno grezzo.
      Seminudo, il corpicino ricoperto degli infiniti tagli in cui una ferocia
      inaudita ha saputo tramutare il concetto stesso di sevizia. Una cosa così
      fa un gran rumore. Un chiasso che arriva in fretta nelle stanze del Papa.
      E’ il Cardinal Farnese, Alessandro il Giovane, a recare la notizia
      formale e ferale al Papa che sente un brivido profondo incrinare il
      granito della sua risolutezza, mentre qualcosa in quella vicenda losca che
      non riesce a smettere di riesaminare gli riporta alla mente un fatto
      avvenuto non molto tempo prima. 
        
      
      
      Il
      Cardinale Alessandro Farnese, olio su tela (cm 97 x 73) di Tiziano
      Vecellio, 1545 – 1546 (fonte: polomusealenapoli.beniculturali.it) 
        
      La
      Pasqua di Sangue del Trentino. Il 23 marzo 1475, la sera del Giovedì
      Santo a Trento è funestata dalla misteriosa scomparsa del figlio di un
      conciapelli piuttosto rinomato in città. Simonino, si chiama il bambino,
      che ad appena due anni e mezzo è docile e tutt’altro che discolo. Non
      sarebbe proprio il tipo da allontanarsi di casa per qualche marachella,
      insomma. E questo il padre Andrea lo sa bene. Dunque raduna familiari e
      conoscenti ed inizia le ricerche, che si fanno sempre più frenetiche
      finché, nelle prime ore del giorno di Pasqua, il corpo senza vita del
      bambino non viene rinvenuto parzialmente ricoperto dal fango di una
      roggia, un anonimo fossato colmo d’acqua che costeggia un viale della
      città. Non si tratta di un incidente. Le ferite che la salma presenta
      sono troppe. Troppo crudeli per essere casuali. Chi può essere stato?
      Perché? E come mai quel corpo è così vicino alla casa abitata dagli
      unici quindici ebrei residenti a Trento – nella zona dell'attuale piazza
      della Mostra? A Trento le redini della Chiesa sono in mano a Giovanni
      Hinderbach, che oltre ad essere vescovo è anche la principale autorità
      politica della zona. E soprattutto è un convinto assertore delle tesi di
      un frate di nome Bernardino da Feltre. Che infarcisce le sue accorate
      prediche con infuocate stille di antisemitismo. Per questo, i pochi metri
      che separano il fosso in cui giace Simonino dalla casa degli ebrei
      rappresentano per il signorotto porporato molto più che un sospetto
      radicato. Germania prima ed Italia settentrionale poi, come se non
      bastasse, sono divenute ricettacolo di consistenti comunità qui riparate
      dall’Europa centrale. Sono gli ashkenaziti, che all’interno del credo
      ebraico rappresentano la corrente più incline a mantenere e tutelare
      un’identità culturale tanto forte da entrare sovente in collisione col
      mondo esterno. L’ashkenazita è diffidente per sua natura, e non
      potrebbe essere altrimenti viste le consistenti ondate persecutorie cui
      nel tempo è stato sottoposto. Ma la sua chiusura è un’arma a doppio
      taglio, perché così facendo i suoi rapporti con i locali, meno
      problematici di quanto già visto in area tedesca, finiscono per
      inasprirsi. La morte di Simonino è la miccia che fa detonare la bomba
      sociale del trentino. Complice il poco mascherato antisemitismo di
      Hinderbach, il quale ha buon gioco nel rivolgere alla comunità ebraica
      locale accuse ufficiali di assassinio. Anzi, omicidio rituale. Simonino è
      morto durante un oscuro rito magico giudaico. 
      
      
        
      Il
      Martirio del Beato Simonino
      che compare sull’esterno di Palazzo
      Salvadori a Trento (fonte: wikipedia.org) 
      Lo
      hanno sacrificato per raccoglierne il sangue, da utilizzare poi per le
      azzime di Pasqua. Nel clamore della folla, i quindici vengono arrestati e
      torturati con foga. Finché non confessano la loro responsabilità
      nell’accaduto. Il più giovane di essi ha appena quindici anni. Il più
      vecchio arriva ai novanta. Perfino Sisto IV si oppone alla barbarie,
      avanzando tra l’altro dubbi sostanziali sulla tesi dell’accusa. Invia
      di corsa un legato a Trento. Ma non serve a nulla. Nel giro di poche ore
      quindici nuove tombe spuntano a Trento, pronte ad accogliere il loro
      sinistro fardello, mentre il resto della comunità viene spedito lontano
      dai confini della regione. Dodici degli accusati vengono bruciati. Due si
      convertono, e ricevono una più clemente decapitazione solenne. Solo una
      donna, Bruna, resiste più a lungo alla tortura e fa sì che lo zelo dei
      persecutori colpisca con più veemenza, tanto da ucciderla sul posto. Ma
      appena prima di spirare la donna confessa e si pente, finendo assolta dal
      peccato e per questo accolta dalla terra benedetta. L’innocente
      Simonino, intanto, nonostante il Papa in persona ne abbia proibito al
      beatificazione solenne, diventa presto oggetto di devozione popolare. Il
      volgo lo festeggia ed acclama da Trento fino a Brescia - la Passione di
      San Simone, la chiamano - ed ogni dieci anni un corteo solenne si snoda
      per le vie del suo paese natìo, recando seco quelli che vengono ritenuti
      gli strumenti di sevizie impiegati dagli empi per sottrarre la vita
      all’innocente. Ferri di macelleria. Aghi per cavare il sangue. Perfino
      dadi per estrarre a sorte tra i carnefici i vari compiti. Tutto questo
      accade dal 1475, e quando Marcello II si imbatte ottanta anni dopo in
      quella vicenda tanto oscura e similare, non riesce proprio a non
      rabbrividire. Perché teme che la sua posizione si riduca a quella di Papa
      Sisto, che ha strepitato invano contro il massacro. Può anzi finire
      peggio, perché allora Sisto era lontano dal teatro dell’orrore. Questa
      volta, invece, il danno si è consumato sotto gli occhi del Papa. Ed il
      sangue ha iniziato a scorrere proprio nel suo giardino privato. Forse non
      è troppo tardi. In fondo, il Cardinal Farnese è scaltro quanto basta.
      Marcello gli ordina di correre al Camposanto, portando una parte della
      guardia con sé. Il Cardinale si fa largo tra gli scalmanati, finché non
      si trova di fronte il converso che li sta sobillando, ingiuriando
      grandemente contro il suo stesso sangue di ebreo. Chiama la sua gente
      detrattori ed assassini. Maghi e negromanti. Li maledice con insistenza
      folle. Il Farnese capisce che l’ordine passa attraverso quel capopopolo
      di paglia, e lo fa arrestare dai suoi sbirri. Poi arriva al cospetto del
      bambino appeso in bella mostra. Inerte nel candore squallido di un
      trapasso infame. C’è un silenzio innaturale attorno. Fuori dal
      cancello, invece, il volgo è un tappeto informe di braccia e mani, gambe
      e reni che si agitano senza sosta. Attendono uno spettacolo su cui
      concentrare la loro rabbia di popolo. Il cardinale capisce che non può
      sperare di sottrarre alla vista della gente quel corpicino martoriato. Fa
      sradicare la croce, e depone le spoglie del ragazzino su di un carro. Poi
      lo fa portare lentamente in processione, mentre attorno il popolo
      ammutolisce alla vista dell’innocenza violata. Il Farnese non è uno
      sciocco, dicevamo. Mostra consapevolmente l’orrore alla gente, perché
      dalle sue indagini ancora non è venuto fuori alcunché sulla vittima.
      Quel bambino massacrato non si sa proprio chi sia. Non un padre si è
      fatto avanti a reclamarlo. Nessuna madre o sorella ne ha lamentato la
      scomparsa. E questa è già una gran differenza rispetto ai fatti di
      Trento. Forse la catastrofe si può ancora evitare, dopo tutto. Il Farnese
      vuole vederci chiaro. E va in processione dai capi della comunità ebraica
      romana, convincendosi che non possono entrarci nulla. Il carro si ferma
      nella pubblica piazza, dove dall’alba del giorno successivo il piccolo
      cadavere viene deposto in attesa che qualcuno lo riconosca. Un medico si
      fa incontro agli sbirri. Afferma di conoscere la vittima, che a suo parere
      è il figlio di un mercante spagnolo che ha curato qualche tempo prima. Il
      Cardinale ha un brutto presentimento. E mentre ancora tutto tace corre a
      casa del mercante, si attacca al portone mentre nessuno risponde ai suoi
      colpi forsennati. Il mercante è morto qualche giorno prima, gli dicono
      alcuni. Proprio come ha fatto anni fa la moglie. L’unico figlio della
      coppia, erede delle fortune del padre, è stato affidato da questi in
      punto di morte al suo più caro amico. Ecco il colpevole. Farnese riporta
      tutto al Papa, che spicca il mandato d’arresto e fa interrogare
      l’uomo. Non servono nemmeno le torture, bastano le maniere forti e
      qualche minaccia per far confessare al falso amico il crimine che lo
      spedisce diritto alla forca. Ha seviziato lui il bambino, ultimo ostacolo
      che si frapponeva fra lui e quel pugno di danari che ha nascosto in casa e
      che forse gli avrebbero fatto cambiare vita. Lo ha visto spirare tra
      atroci spasmi, acuendo il suo dolore e riempiendosi le viscere man mano
      che assisteva al venir meno delle sue giovani forze. Conscio del clima
      antigiudaico caratteristico dell’epoca, ha architettato quella farsa
      macabra che riecheggia un orrore nemmeno troppo antico, e non certo
      lontano, per allontanare da sé ogni sospetto e scaricare la colpa sul
      capro espiatorio per eccellenza. Il regno del Papa viene sgravato
      dall’incomoda presenza dell’omicida con gran trambusto e sommo
      clamore. Con la massima solennità possibile. Affinché il popolo sappia
      che, questa volta, non c’è stato rituale di sorta, né culto sinistro
      da soddisfare. Nessuna magia in funzione anticristiana, né orribile
      feticcio umano. Qui si tratta solo e soltanto di perfidia ed ignominia. E
      di un’altra, misera vita divelta in boccio. Una vita recisa che qualcuno
      ha pensato di affiggere, macabro monumento di carne, nel bel mezzo del
      Camposanto più antico dell’Urbe per turbarne la pace più sacra. In
      parte il piano ha sortito il suo effetto. Perché se la minaccia più
      immediata è stata sventata, con la repentina scomparsa di Marcello II,
      appena 23 giorni dopo la sua folgorante elezione, la successiva nomina al
      Soglio di Pietro del Cardinal Gian Pietro Carafa, col nome di Paolo IV,
      spalancherà le porte ad un ulteriore e ben più radicale giro di vite
      alle misure restrittive e segregazioniste della Chiesa contro la Natione
      Hebraea. 
       (Autore:
      Simone
      Petrelli)
      
       
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