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Scritto sulla pietra

I significati dell' arte rupestre

(di Massimo Centini)

Questo scritto di fatto costituisce un corpus di appunti che dovrebbero concretizzarsi in uno studio articolato diretto a fornire gli strumenti per l’analisi etnografico-antropologica dell’arte rupestre. Argomento a cui l’autore sta lavorando dalla seconda metà degli anni Settanta, compiendo ricerche in varie aree geografiche.

  Di certo la più grande rivoluzione moderna nella storia della rappresentazione risale al 1839 quando, per la prima volta, su un dagherrotipo rimase impressa, in un angolino di una veduta di Parigi,  una figura sfocata e mossa: un uomo sconosciuto di cui non sapremo mai l’identità.

Dopo quell’immagine inizierà un nuovo periodo: il rapporto dell’uomo con la raffigurazione di sé e del mondo circostante non sarà più quella dei tempi della sola pittura e del disegno.

Da quel momento la realtà entrava prepotentemente nella sua rappresentazione, affrancando l’artista dall’onere dell’interpretazione e della riscrittura della storia.

Per ritrovare una rivoluzione di tale portata, anche se su piani molto diversi, è necessario ritornare indietro nel tempo, fino a circa 30.000 anni fa, quando gruppi di uomini Sapien-sapiens (Cro Magnon) iniziarono a sentire il bisogno di rappresentare, sulle pareti delle caverne, figure di animali multicromatiche. In quel preciso momento, in un’area in fondo piuttosto ristretta (franco-iberica), nasceva una nuova esperienza della cultura che non abbandonerà più l’uomo: l’arte (1).

Come abbiamo visto, risalire alle origini dell’arte rupestre vuol dire ritornare alla preistoria (2), anche se certamente il problema non si risolve solo attraverso valutazioni di tipo cronologico e su un piano evoluzionistico (3).

  •   La pietra e il sacro

Partiamo dalla pietra. La pietra, in sé, in quanto materiale  che cristallizzerebbe nella sua esistenza il potere tellurico, ha svolto da sempre un ruolo fondamentale nelle più diverse culture (4). Ruolo che presenta due aspetti ben precisi:

  1. pratico: pietra come materiale per la costruzione di oggetti e strutture
  2. simbolico: connesso alla consapevolezza che la pietra può rappresentare qualcosa o qualcuno” e di fatto esprime valori che vanno al di là della sua apparenza.

Senza dubbio alcune delle caratteristiche della pietra, la dimensione, la forma e soprattutto l’apparente indistruttibilità, hanno continuato a reggerne le valenze simboliche all’interno della dimensione del sacro.

La pietra è stata un referente molto importante per l’uomo, infatti è ben noto che con Età della Pietra (suddivisa in due grandi blocchi cronologici: Paleolitico e Neolitico, cioè Età della Pietra antica e della Pietra nuova) si identifica un periodo molto ampio della cultura e dell’evoluzione dell’uomo, un periodo attraverso il quale l’Homo habilis si è lentamente mutato in Homo sapiens sapiens.

Tralasciando tutte le problematiche pratiche e costruttive, e occupandosi esclusivamente della  litolatria (venerazione delle pietre) constatiamo che tale pratica è presente in numerose religioni antiche e “primitive”. È evidente che le testimonianze oggettive del potere sociale, ma anche politico, del culto della pietra, si espressero in particolare con il megalitismo, fenomeno emblematico (5).

Vanno inoltre considerate le implicazioni connesse alla fertilità che possono aver svolto un ruolo molto importante nel culto della pietra: si tratta di implicazioni che si esprimono soprattutto nel simbolismo del fallo litico, a cui si riallacciano culti e tradizioni (sopravvissuti nel folklore) destinati a relazionare la pietra alla procreazione.

Alla fecondità sembrerebbero legarsi anche i meteoriti, pietre particolari perché venute dal cielo e quindi, nelle culture antiche, espressioni particolarmente vive dell’epifania del divino.

Dalla pietra, e dalla sua rappresentazione, sembrerebbe essersi evoluto un modello divino: la parola

semitica beth-el (casa di dio) in età premosaica designava una pietra sacra e contemporaneamente il dio che in essa vi risiedeva. E ancora: l’immagine primordiale di Ermes era un cumulo di pietre evolutosi nella colonna itifallica; in alcuni casi Apollo era venerato con l’epiteto di Lithesios, che risulta chiaramente connesso alla pietra.

Dio era dentro la materia litica anche attraverso il culto del betilo, pietra cultuale dell’area semitica entrata nella tradizione del mondo classico: nella sostanza il betilo è il “dio di pietra” attestato in particolare nell’area siro-palestinese.

Greci e Romani fecero loro questo culto, trasformandolo e modificandone le sue peculiarità; nell’antica Grecia troviamo il termine baitylos indicante la pietra che la dea Terra aveva sostituito al neonato Zeus e che Crono ingoiò al posto del figlio. Il betilo era venerato a Delfi, ma anche i Romani sostenevano di possederlo e lo indicavano nella pietra di Termine (dio dei confini) depositata nel tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio.

In estrema sintesi, posiamo partire da un assunto basilare: le pietre (come gli alberi, le acque, gli astri, ecc.) assumono valenze e significati sul piano religioso secondo un processo mitopoietico attestato in tutte le culture. Come abbiamo visto, l’esempio più significativo dell’utilizzo di pietre in ambito rituale è costituito dal megalitismo, anche se intorno a questa espressione della tradizione cultuale non vi è accordo tra gli studiosi, dal punto di vista del significato e da quello relativo al le tecniche costruttive adottate per la realizzazione dei grandi complessi litici.

Al di là della fenomenologia megalitica in sé, le pietre sono entrate a far parte della tradizione magica, religiosa e mitica in relazione ad espressioni, funzioni e riconoscimenti simbolici varianti da cultura a cultura. Di conseguenza è abbastanza arduo pretendere di stabilire un’interpretazione universale applicabile alla litoliatria.

Sulla base degli studi di Eliade, sembrerebbe di potere constatare che “l’ideologia litica” si qualifica con toni sacrali in relazione all’alterità della pietra, alla sua originalità e potenza attribuite a valenze poste fuori della storia: “La durezza, la rudezza, la permanenza della materia rappresentata per la coscienza religiosa del primitivo era una ierofania. Niente di più immediato, di più autonomo che la pienezza della sua forza, niente di più nobile e di più terrificante che la roccia maestosa, il blocco di granito audacemente eretto. Prima di tutto, la pietra è... Nella sua grandezza e nella sua durezza, nella sua forma che appartengono a un mondo diverso dal mondo profano del quale egli fa parte” (6).

Di diverso avviso sono altri studiosi, per esempio di Nola, secondo il quale “i processi di formazione dei miti e culti della pietra, pur nelle profonde differenziazioni evidenziabili nei differenti ambiti culturali, possono essere ricondotti molto spesso a esperienze umane, a forme di rappresentazione, a meccanismi simbolici che testimoniano un rapporto reale, pratico, utile con l’ambiente. E cioè, la qualificazione sacrale, nel mito e nel rito, di talune pietre, rocce, meteoriti, ecc. non rappresenta un avvenimento del sacro tout court, irrazionalmente inteso come realtà assoluta e invadente, ma riflette chiaramente l’atteggiamento dell’uomo di fronte all’ambiente, la spiegazione che egli dà all’ambiente in un rapporto mitopoietico” (7).

Riferendoci alla precisazione proposta dal di Nola, sembrerebbe che l’uomo tenda a trasformare le “realtà naturali” in “realtà sacre”: in questo modo avverrebbe, in relazione alle necessità delle varie culture, un tentativo per dare una connotazione soprannaturale a quanto si sottrae al “normale” sistema di relazioni caratterizzante l’uomo e l’ambiente. Tale configurazione del mito ha contrassegnato spesso l’indagine etno-religiosa, per esempio quella di  scuola funzionalista. Bronislaw Malinowski (1884-1952), studiando i miti che narrano le trasformazioni di personaggi primordiali in pietre nell’area oceanica delle Trobriand, non si appellò al sacro, ma fornì una spiegazione, a livello mitopoietico, del complesso ambientale: in pratica la realtà diviene mitica nella misura in cui gli uomini hanno bisogno di trovare comunque un senso al loro essere nella storia.

Per gli indigeni trobriandesi, alcune pietre entro le quali vi sarebbe l’antenato, costituirebbero un legame forte tra passato e presente, fornendo garanzie per la realtà attuale. Si aggiunga che l’origine di alcune credenze  sul “contenuto” mitico delle pietre, potrebbe anche essere ricercato in semplici analogie formali e materiali “della realtà che gli si presenta, con quella che egli ha costruito nei suoi miti (questa o quella pietra, questa o quella roccia divengono questo o quel personaggio, perché l’occhio ve ne vede i tratti fisici, le forme del corpo o ve li immagina). In questo senso, le realtà naturali (alberi, pietre, ecc.) assumono una funzione utile per il gruppo, che trasforma l'ambiente inerte in un ambiente mitico la cui azione si dispiega utilmente” (8).

Naturalmente i casi sono numerosissimi: in ognuna delle pietre che rientrano nella sfera del mito e del sacro vi è, da parte dell’uomo, la volontà di tracciare un legame con un passato che non si vuole considerare completamente perduto e pertanto viene evocato attraverso il rito.

La grande pietra è così segno di un eterno presente, garanzia di immortalità; la sua mole e la sua forma  personalizzano l’ambiente e in certi casi l’antropomorfizzano, ma soprattutto lo rendono luogo immutabile.

La scelta di una pietra che sarà connotata con toni sacrali presenta alcune peculiarità che, a una prima valutazione, sembrerebbero determinate da:

  1. forma
  2. colore
  3. origine (presunta)
  4. collocazione.

 

Quasi sempre queste peculiarità risultano strettamente connesse a riferimenti di ordine mitico e di conseguenza considerate soprannaturali, comunque fuori dalla norma, “altre”. Forti di tali caratteristiche, le pietre, le rocce e i gruppi litici naturali sacralizzati, si trasformano in vere e proprie protagonisti nelle varie culture in cui garantiscano la stretta relazione tra naturale e soprannaturale. Nella coscienza collettiva, forma, colore, origine e collocazione di queste pietre non sono mai naturali, ma sempre determinate da fattori esterni, in genere connesse a eventi straordinari.

L’impossibilità di dare un senso a quanto viene considerato anomalo, che non può essere “solo naturale”, ovviamente in relazione ai parametri degli osservatori, determina la trasformazione di quel soggetto (per esempio un masso posto in una posizione considerata “impossibile”) in qualcosa di esterno, strettamente relazionato a personaggi e mondi lontani, nel tempo e nello spazio. In questo modo, la litolatria conferma, nelle sue tante forme (dal mondo antico fino alla tradizione folklorica), quanto forte e radicato sia il valore sacrale attribuito alla pietra che, paradossalmente, è un materiale di facile reperibilità e ampiamente sfruttato nelle tecnologie del passato.

Nell’Antico e nel Nuovo Testamento i riferimenti alla pietra nei suoi molteplici aspetti simbolici connessi alla dimensione del sacro sono numerosi.

Oltre alle numerose indicazioni pratiche relative all’uso della pietra (Levitico 14,54; Amos 5,11; Primo Libro dei Re 6,7; 7,9; Neemia 3,35), nell’Antico Testamento troviamo tutta una serie di espliciti riferimenti alle valenze sacrali della materia litica: uno tra gli esempi più indicativi è certamente costituito dal sogno di Giacobbe (Genesi 28, 10-22).

Quando Dio è partecipe diretto nell’esperienza umana, l’uomo lo celebra con la pietra, poiché materia adatta a garantire l’immortalità. La vittoria sui Filistei è consacrata da Samuele con l’erezione di una pietra: “Gli uomini d’Israele, usciti da Mizpa, inseguirono i Filistei e li batterono fin sotto Bet-Car. Samuele, prese una pietra, la drizzò tra Mizpa e Iesana e la chiamò Eben-Ezer dicendo: Fin qui ci ha aiutato il Signore” (Primo Libro di Samuele 7, 11-12).

La pietra è immortale, ma soprattutto è indenne dall’impurità e per questa sua caratteristica risulta più adatta per essere posta a stretto contatto con quanto appartiene al sacro. Per esempio, i recipienti per la purificazione erano in pietra e non di argilla o di legno (Giovanni 2,6).

Ma soprattutto, solo per restare in ambito giudaico, basti pensare alle Tavole della Legge: “tavole di pietra, la legge e i comandamenti che ho scritto per istituirli” (Esodo 24,12). In quelle tavole c’è la conferma della sacralità della pietra riconosciuta da Dio, il quale per primo ha scritto su quel materiale atto a confermare nel tempo, per sempre,  le sue regole. Nella pietra vi è Dio come si evince chiaramente nell’Esodo (17, 1-7) nell’episodio della roccia sull’Oreb dalla quale sgorgò l’acqua per il popolo di Mosè.

Ma la pietra da sola non poteva celebrare Dio, perché la stele poteva essere impregnata di sacro secondo la concezione monoteista, ma nello stesso tempo poteva essere espressione di rigurgiti pagani, e allora la pietra eretta risultava in diretta relazione con il simbolo fallico, con il conseguente richiamo alle divinità maschili, guerriere e sanguinarie. Infatti, queste pratiche furono severamente vietate: “Non pianterai un palo sacro di qualsiasi legno accanto all’altare del Signore tuo Dio che ti sarai costruito; né erigerai una stele, che è in odio al Signore tuo Dio” (Deuteronomio 16, 21-22).

A tratti vi è quindi una certa ambiguità nel culto della pietra: ambiguità che si esprime soprattutto nella costante tensione tra consentito e vietato, all’interno del linguaggio cultuale del monoteismo. In pratica il peccato è presente nella valenza fallica della pietra, quella che viene posta in relazione al paganesimo.

Ne consegue che la pietra è sacra, nella tradizione vetero e neotestamentaria, quando è innalzata per celebrare Dio e assume funzione di esprimere la divinità, perché in essa risiede lo spirito di Dio. La pietra può anche essere allegoria della potenza divina: “Il Signore è una roccia e una fortezza (…) una rupe in cui mi rifugio” (Secondo Libro di Samuele 21,2).

Ma la problematica separazione tra il complesso significato teologico e il simbolismo fallico, non appare risolvibile sul piano della rappresentazione, in particolare per quanto concerne l’ambito archeologico, in cui la relazione tra reperti e testi non sempre è facilmente individuale.

Nel Nuovo Testamento la pietra diviene presenza necessaria sul piano reale e su quello simbolico per la costruzione della Chiesa: ne abbiamo traccia nella celebre affermazione di Cristo riportata nel Vangelo di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia chiesa” (16,18).

La pietra, in cui vi era Dio, adesso assume una valenza antropologicamente coerente e si struttura nell’immagine della chiesa-edificio, metafora per dare un luogo di riferimento all’opera di diffusione del Verbo.

In genere, nel Nuovo Testamento il termine pietra è spesso accompagnato da un aggettivo qualificativo e risulta usato in riferimento a Cristo e in misura minore alla sua comunità, la Chiesa. Nella maggioranza dei casi, i passi in cui si fa riferimento alla parola lithos sono presenti nei Sinottici in particolare Matteo. In alcuni casi Cristo è paragonato a una pietra, come nel caso di Marco (12,10) che  rifacendosi ai Salmi (118,22) indica Cristo come “pietra angolare”.

L’espressione tenderebbe anche a rimandare all’immagine simbolica che si riferisce all’architettura, trovando in questo ambito una chiara allegoria per esprimere la forza di Cristo nell’unire gli uomini. Ne abbiamo una conferma precisa con San Paolo quando, nella Lettera agli Efesini, indica Gesù come colui che regge il tempio della fede: “Il vostro edificio ha per fondamento gli apostoli e i profeti, mentre Gesù Cristo stesso è la pietra angolare, sulla quale tutto l’edificio in armoniosa disposizione cresce come tempio santo del Signore, in cui anche voi siete incorporati nella costruzione come dimora in Dio nello Spirito” (2,20).

Un interessante riferimento al rapporto di Cristo con la pietra è rinvenibile nell’episodio della tentazione: il diavolo esorta il Messia a trasformare le pietre in pane (Matteo 4,3). Nel caso specifico non si tratta solo di un riferimento all’analogia della forma esteriore esistente tra la pietra e il pane, ma anche dell’influenza del mito greco secondo il quale dopo il diluvio, gli uomini sarebbero nati dalle pietre che Deucalione aveva seminato. In effetti, alcune tradizioni semitiche indicano la nascita dell’uomo da una pietra.

Il termine pietra, dal latino petra, deriva dal greco, ma la sua etimologia è incerta e non si conosce con precisione la genesi di questa parola così diffusa e ricorrente. A questo punto, per avere una visione più ampia dei tanti significati della pietra, sia nella sua implicazione con il sacro che in quelle esterne alla dimensione del culto e del rito, scorriamo rapidamente alcune delle più significative valenze che ha assunto nella tradizione. Pensiamo all’uso che ne facciamo nel linguaggio quotidiano. Ogni giorno noi ci riferiamo ad allegorie e metafore in cui sono contenute espressioni come: cuore di pietra, metterci una pietra sopra, avere una pietra sullo stomaco, pietra dello scandalo, ecc. ecc.

Nella tradizione popolare, oltre il ricorso alle definizioni precedentemente indicate, troviamo la “pietra gravida” (limonite) considerata un talismano per assicurare una buona gravidanza; mentre la “pietra latteriale”, nome dato ad alcune varietà di agata e calcedonio, avrebbe la proprietà di favorire la secrezione del latte e garantire un buon allattamento del neonato.

In passato, nella medicina popolare e nella religiosità, erano piuttosto diffuse le cosiddette “pietre del fulmine”: quasi sempre cuspidi di freccia preistoriche montate a ciondolo e considerate resti lasciati dai fulmini abbattutisi al suolo.

Una collocazione a sé è dovuta alla Pietra filosofale. Si tratta dello strumento primario all’interno della tradizione alchemica, che con le sue proprietà soprannaturali avrebbe la funzione di garantire la trasformazione di qualunque materiale impuro in oro.

La Pietra filosofale rappresenta il fine ultimo dell’impresa alchemica: naturalmente questo soggetto è stato interpretato attraverso varie chiavi di lettura che vanno da quella esoterica a quella psicologica e psicoanalitica.  Se dal punto di vista esoterico la Pietra filosofale costituisce la lapis che consente, attraverso un percorso sostanzialmente magico, di intervenire nell’inalterabilità della materia, da quello psicoanalitico rappresenta la proiezione del traguardo rappresenta con l’ascesa interiore condotta dall’uomo alla ricerca del proprio Io.

Concludiamo queste righe soffermandoci brevemente sulla pietre meteoritiche che assumono valenze soprannaturali perché provengono dal cielo e quindi risultano manifestazione di una potenza “altra”, esterna e non controllabile dall’uomo, anzi superiore a esso. In genere, sono avvolte da regole e tabù che controllano i trattamenti sacrali a cui sono sottoposte.

I meteoriti presentano un’importanza particolare nella storia delle religioni: tra gli esempi più significativi ricordiamo la “Pietra di Pessinunte” (oggi Balhissar, in Turchia), immagine aniconica della dea Cibele e portata a Roma nel 205 a.C. dove fu posta in un apposito tempio preparato sul Palatino; la Ka’bah della Mecca.

 

  • Messaggi litici

Lo studio delle incisioni rupestri, di qualunque parte del mondo, consente di ripercorrere le varie fasi di un linguaggio attraverso il quale l’uomo ha cercato di comunicare con gli altri uomini e probabilmente con la divinità. Scene di caccia, di agricoltura, di vita domestica e di battaglia, oltre a un ampio complesso figurativo che potrebbe essere connesso al rito e alla religione, sono tematiche ricorrenti tra i soggetti realizzati sulle pietre dalle ultime fasi del Paleolitico fino a tutta l’Età del Rame e del Bronzo. Di fatto costituisco la più emblematica espressione del bisogno dell’uomo della preistoria di “raccontare” la propria esistenza. Forse di pregare.

L’attestarsi di civiltà provviste di scrittura produsse un repentino rallentamento dell’arte rupestre che, in breve tempo, divenne una forma di comunicazione sempre più rara, senza comunque scomparire definitivamente. Infatti, parte del patrimonio simbolico di quest’arte è ancora oggi vivo nel folklore e nella tradizione (9).

In generale, lo studio di queste testimonianze permette non solo la conoscenza della cultura della preistoria nelle sue numerose espressioni, con particolare riferimento alla spiritualità, alla tecnologia e alla micro-quotidianità, ma consente anche di porre in rilievo la ricaduta di questo patrimonio grafico nel folklore moderno. Infatti, le rocce sulle quali sono presenti incisioni rupestri molto spesso sono entrare a far parte della tradizione popolare e inserite in credenze, rituali e interpretazioni mitiche. Si passa dalla toponomastica (una roccia con incisioni, non necessariamente preistoriche, spesso è indicata con “Pietra del diavolo”, “delle streghe”, “dei folletti”, ecc.) alla ritualità diretta (inserimento di offerte all’interno delle cavità litiche in occasione di festività cristiane, o pagane reinterpretate), fino alla continuazione della pratica di incidere sulle grandi pietre segni di vario tipo, poiché azione di buon auspicio, o comunque quasi sempre caratterizzato da una base mitica.

Oggi lo studio dell’arte rupestre preistorica e protostorica non può fare a meno di considerare le implicazioni etnografiche, tenendo così conto delle relazioni con la cultura locale e le connessioni con il piano della religiosità e della mitologia.

L’argomento è sconfinato e soprattutto non può essere affrontato in modo generico, poiché l’arte rupestre non è una manifestazione a sé stante, ma si collega, attraverso molteplici canali, a tutta una serie di ambiti della cultura dell’uomo, in passato come oggi (10).

“Le incisioni rupestri, le pitture parietali, in tutte le categorie figurative e nelle diverse realizzazioni tecniche, le opere d’arte mobiliare, le espressioni decorative caratterizzanti anche oggetti e strumenti d’uso comune, i disegni e i colori che ornano le pareti di una capanna, i corpi degli iniziandi o dei partecipanti a diversi tipi di cerimonie, ed i semplici disegni tracciati nel fango o nella sabbia o quelli che caratterizzano pelli, stoffe o cortecce, sono solo l’apparente di realtà molto complesse e profonde che a noi sembrano oggi in alcuni casi palesi, leggibili ed interpretabili, ma che invero sono da noi lontane e spesso incomprensibili nella loro reale essenza” (11).

Fatte le dovute distinzioni tra incisioni figurative e non figurative, nell’arte rupestre preistorica possono essere individuati alcuni temi iconografici e modelli ricorrenti. Ricordiamo i principali, tenendo conto che non è possibile effettuare un elenco completo, in quanto possono essere presenti alcune formule originali e caratteristiche di un sito ma assenti in tutti gli altri:

Ø  coppelle (12)

Ø  coppelle con canaletti

Ø  affilatoi

Ø  crociformi

Ø  circolari

Ø  spiraliformi

Ø  labirinti

Ø  impronte (mani; piedi)

Ø  simboli sessuali

Ø  geometrici (reticoli, filetti, complessi)

Ø  armi

Ø  strumenti e utensili

Ø  animali

Ø  animali associati all’uomo (agricoltura, caccia, altro)

Ø  abitazioni

Ø  imbarcazioni

Ø  carri

Ø  attività agricola

Ø  attività venatoria

Ø  attività lavorativa (esclusa agricoltura e caccia)

Ø  attività bellica

Ø  antropomorfi: mascheriformi; schematici; articolati; mostruosi.

 

All’interno di una valutazione etno-archeologica vanno considerate anche alcune relazioni tra l’incisione rupestre e il contesto:

ü  posizione rispetto al sito antropizzato (preistorico e/o moderno) (13)

ü  caratteristiche della geomorfologia

ü  rapporti con le vie di comunicazione

ü  patrimonio mitico locale

ü  persistenza di tradizioni rituali nella cultura locale.

 

Sulla base delle attuali conoscenze, provenienti dall’osservazione statistica delle incisioni documentate, è possibile constatare che la maggior parte di questi segni è collocata nei pressi di vie di transito (sentieri-mulattiere). Per gli esperti questa relazione, “prescindendo ancora una volta da ipotesi di attribuzione del significato che potrebbe suggerire una funzione di segno territoriale o di percorso, tale rapporto testimonia come minimo la persistenza nel tempo di determinate vie di comunicazione montane, e la loro notevole capillarità, vista la grande quantità di incisioni rupestri” (14).

Si tratta di un’indicazione importante, anche se certamente non risolutiva: la collocazione delle incisioni rupestri nei pressi delle vie di transito può indicare la necessità di “far vedere” l’incisione, al di là del suo effettivo significato.

Tralasciando le abusate identificazioni di tradizione romantica, tanto care alla fanta-archeologia, che legano massi e pietre con incisioni al sacrificio, al culto cruento, fino agli extraterrestri, sembrerebbe comunque evidente una relazione tra soggetto inciso e il posizionamento del supporto litico, anche se non costituisce un dato assoluto.

La questione assume toni ancora più problematici se si considera la difficoltà di stabilire una collocazione cronologica precisa: infatti, spesso viene usato senza la dovuta cura l’aggettivo “preistorico”; si tratta di un errore filologico grave poiché non tutte le incisioni rupestri sono preistoriche e, soprattutto, spesso non è possibile datarle. Ciò è dovuto a una serie di motivazioni:

  1. la pietra non può essere sottoposta a esami come i reperti organici
  2. quanto le incisioni rupestri presentano peculiarità che potrebbero collocarle in ambito preistorico, mancano apporti di tipo archeologico (scavi, reperti, ecc.) che consentirebbero di fissare alcuni punti fermi di tipo cronologico e culturale
  3. alcuni “tipi” e “segni” rinvenibili nell’arte preistorica, sono entrati a far parte dell’apparato simbolico delle culture successive, spesso senza soluzione di continuità
  4. le incisioni rupestri sono presenti in piccoli gruppi, prive di elementi di contesto” che possono facilitarne l’interpretazione a 360 gradi.

 

Oggi gli studiosi, anche con il contributo di ampie campionature, cataloghi e schedature, sono nella condizione di effettuare confronti tipologici che consentono di stabilire legami e modelli, pur senza raggiungere, salvo pochi casi, una certezza assoluta.

Da sempre, relazionate al mito e alla religiosità, le incisioni rupestri sono una presenza che è parte integrante della cultura popolare. Quei “segni strani” hanno accompagnato l’uomo dall’alba dei tempi, che li ha trovati nella propria realtà, pur senza conoscerne l’origine: spesso si è limitato a considerarli tracce legate al mondo occulto, al paganesimo.

Solo nella metà del XVII secolo le incisioni rupestri sono entrate a far parte della storia ufficiale: è Pietro Gioffredo, autore di Monumenta historiae patriae, che dopo aver visitato l’area del Monte Bego, scrisse alla moglie una lettera (1650) in cui descriveva le incisioni come rappresentazioni demoniache, determinando un’immagine destinata a perdurare per molto tempo nell’immaginario collettivo.

Lo studio scientifico dell’arte rupestre inizia due secoli dopo, sempre nella stessa area, con Clarence Bicknell; dai primi del Novecento vi sarà un crescendo di ricerche e studi che via via contribuiranno a creare un nuovo e affascinate segmento dell’archeologia preistorica.

La maggiore concentrazione di incisioni rupestri si registra nell’Italia Settentrionale, in particolare nell’area alpina, dove vi sono due siti con migliaia di opere del genere: la Val Camonica e la Valle delle Meraviglie.  

                                                   

                                                                             Grotta dell'Addaura (Sicilia)

 

  • Segni e pensieri

“Esiste una stretta connessione tra sviluppo della abilità pratica in una particolare industria e attività artistica. L’arte ornamentale, in particolare, si è sviluppata proprio in quelle industrie in cui si è raggiunta una grandissima abilità, perché, produzione artistica e abilità sono strettamente correlate” (15).

La precedente osservazione di Franz Boas, uno dei maestri dell’antropologia moderna, ci sembra idonea per sottolineare un aspetto non sempre valutato con la dovuta attenzione: la stretta relazione che regola l’arte rupestre alla tecnologia.

Partendo dal presupposto che questo genere di pratica presenta due tipologie fondamentali (figurativa e non figurativa), dobbiamo tener conto che non tutte le espressioni di questa arcano fenomeno del linguaggio sono uguali sul piano della tecnica esecutiva. Sono infatti sostanzialmente quattro le tecniche identificate:

o   pittura

o   incisione

o   graffito

o   picchettatura.

 

Pur non entrando nel merito degli aspetti eminentemente tecnici, sui quali non possediamo le necessarie conoscenze, ma che possono essere conosciuti attraverso gli studi di specialisti qualificati (16), ci limitiamo ad alcune osservazioni generali sul background tecnico e culturale dell’arte rupestre:

ü  scelta della superficie

ü  scelta del soggetto da raffigurare

ü  tipologia degli strumenti utilizzati

ü  tecnica adottata

ü  tempo richiesto

ü  posizioni e movimenti dell’esecutore.

Ausilio Priuli, uno dei maggiori esperti di arte preistorica, ha proposto una serie di tipologie esecutive che costituiscono un panorama ampio, in grado di raccogliere sostanzialmente tutte le tecniche di lavorazione:

Ø  tracciati digitali: segni realizzati con le dita sull’argilla, o con le mani coperte di colore: si tratta di una tipologia maggiormente presente nell’arte paleolitica in grotta

Ø  graffiti filiformi

Ø  graffiti ripetuti

Ø  incisioni per picchettatura

Ø  incisioni per raschiatura

Ø  incisioni per intaglio

Ø  incisioni a percussione diretta

Ø  incisioni a percussione indiretta.

Va inoltre considerato che le incisioni rupestri possono essere realizzate con strumenti di pietra o di metallo: evidentemente i risultai saranno diversi. Nel primo caso le picchiettature dell’incisione saranno variabili in relazione alle trasformazioni subite dallo strumento nel corso dell’uso; nel secondo caso le picchiettature presenteranno una sezione costante.

Fatte queste generali e superficiali osservazioni di ordine tecnico, ritorniamo ad occuparci degli aspetti culturali che contrassegnano l’arte rupestre.

A livello generale, non dobbiamo mai dimenticare che il significato di uno o più segni non è costante nel tempo e nello spazio: ciò costituisce un’ipoteca pesante per l’interpretazione e che non può prescindere dalla conoscenza del contesto culturale in cui quel segno è stato realizzato.  Soprattutto, devono essere considerate le implicazioni di ordine antropologico, che di fatto sono quelle destinate ad accrescere le nostre conoscenze ed a suggerire ipotesi per collegare il passato con il presente.

Dobbiamo poi considerare che quando gli antropologi parlano di incisione rupestre danno alla definizione un’estensione più ampia di quella esclusivamente archeologica: infatti considerano arte rupestre non solo le pitture e le incisioni presenti sui massi e affioramenti, ma anche segni su elementi architettonici e altre strutture in pietra inserite all’interno di uno spazio antropizzato. Spesso sono proprio questi segni a possedere notevoli valenze di ordine etnografico che consentono importanti valutazioni sul piano storico e culturale.

Su questa linea di pongono altre fonti di rilevante interesse.  Le prime sono contrassegnate da una sorta di continuità segnica: vale a dire la persistenza di motivi grafici e di varia forma presenti nell’arte geometrica più antica ed entrati a far parte del patrimonio simbolico del folklore.

Le seconde sono invece le fonti letterarie: in genere di tradizione cristiana, nelle quali uomini di Chiesa, nell’altomedioevo, prendevano posizione nei confronti delle varie forme di saxorum veneratio fino a considerare queste pratiche culto del diavolo l’iscrizione sulla pietra era forse la manifestazione più tollerata, mentre erano sottoaccusa soprattutto i vari tipi di culto praticati sui massi erratici e sui megaliti (17).

Osservando globalmente l’attuale patrimonio culturale costituito dalle testimonianze rupestri che non fanno parte dei grossi complessi, costatiamo che le incisioni appaiono spesso isolate o in piccoli gruppi; si tratta quindi di definire una metodologia di studio, ma anche di semplice osservazione, scevra dalle influenze dei miti moderni e che tenga conto:

ü  degli aspetti tecnici già indicati

ü  della variabilità del segno (naturale o dovuto a sovrapposizioni in periodi storici diversi)

ü  delle implicazioni culturali locali che possono aver determinato  la realizzazione di varie forme di arte rupestre, la loro alterazione e/o continuazione nel tempo.

Una attenzione del tutto particolare deve essere rivolta alle implicazioni folkloriche: in questo senso sono di grande interesse gli aspetti toponomastici. Infatti, spesso le superfici istoriate sono contrassegnate da nomi che le pongono in relazione all’universo mitico e fantastico della cultura in cui sono presenti. Le fonti di carattere toponomastico vanno comunque considerate cum grano salis.

Va quindi osservato che la specifica toponomastica non è conferma del coinvolgimento di quella pietra, da tempi lontanissimi, nell’universo mitico locale. Infatti, può trattarsi di nomi di origine recente, anche molto recente, frutto dell’enfasi contemporanea.

Più credibili quei toponimi che si riferiscono alle peculiarità fisiche o funzionali delle rocce, tipo: “Pietra forata”, “Pietra marcia”, “Pietra della vergogna”, ecc.

L’analisi toponomastica può essere condotta cercando di non limitarsi a un metodo analitico legato a uno specifico campo d’indagine, poiché, oggi, uno studioso “a meno che gli non sia piuttosto privo di immaginazione, non può rimanere indifferente agli interessi reciproci che legano la linguistica all’antropologia e alla storia della cultura, alla sociologia, alla psicologia, alla filosofia e, più lontana, alla fisica e alla fisiologia” (18).

Se ci soffermiamo rapidamente ad osservare i legami immaginati tra le testimonianze dell’arte rupestre, figure e fatti mitici del folklore nostrano, incontriamo una serie di temi ricorrenti che ci consentono di indicare un’incisione come: traccia del diavolo; solchi di carri lasciati da figure mitiche, comunque molto lontane nel tempo, tracce attribuite a streghe, fate, folletti, ecc.; tracce attribuite agli eretici; “sedili” della Madonna e santi di passaggio; impronte della Madonna, santi e vari personaggi del Nuovo Testamento; tracce di martiri: segni del loro passaggio o macchie che ne testimoniano il martirio; quando i segni sono cruciformi vengono attribuiti ai santi di passaggio, in alcuni casi famosi; tracce di personaggi storici.

Per una visione più ampia del bacino culturale dell’incisione rupestre è fondamentale considerare:

    • posizione rispetto al centro abitato
    • situazione geomorfologia locale
    • patrimonio mitico locale
    • livello di convivenza, nelle forme mitico-rituali locali, tra precristiano e cristiano
    • rapporti con le vie di transito
    • persistenza di motivi e temi dell’arte rupestre nella tradizione decorativa agro-pastorale.

 

Globalmente, il patrimonio costituito dall’arte rupestre dimostra la propria complessità epistemologica: complessità che, ancora oggi, malgrado le importanti acquisizioni dell’indagine scientifica, è oggetto di accesi dibattiti su vari fronti.

Va inoltre considerato che molte teorie che prendono in esame il significato dell’arte rupestre si soffermano soprattutto sulle sue implicazioni di ordine magico-religioso. Spesso l’osservazione di questo esclusivo ambito, per quanto importante, ha posto in rilievo prevalentemente gli aspetti più eclatanti di questa espressione della cultura, quelli colmi di quel simbolismo che dall’universo visionario romantico sono passati alla New Age.

Partendo da un assunto di Karl Popper, “il progresso della conoscenza consiste principalmente nella modificazione delle nostre conoscenze precedenti” (19), giungiamo alla conclusione che l’arte rupestre non può essere circoscritta a una sola teoria o a un ristretta cerchia di funzioni. Inoltre, riprendendo ancora Popper, possono esserci grandi differenze tra quanto pensiamo dell’arte rupestre e quanto effettivamente “fu” ed “è”; ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che il suo significato, pur accettando l’universalità di un segno e avendo presente le teorie sugli archetipi, non è strato sempre uguale: “anche se qualche volta, ad esempio in archeologia, può darsi che si progredisca grazie ad un’osservazione casuale, il significato della scoperta dipenderà di solito dal suo potere di modificare le nostre teorie precedenti” (20).

Nella sostanza, le certezze sul ruolo e il significato dell’arte rupestre possono essere oggetto di parziali riletture e interpretazioni. Forse anche queste sue peculiarità contribuiscono ad assegnarle quei toni e quell’aura un po’ misteriosa che, ancora oggi continuano ad affascinarci.

                                             

                                                                                     Valcamonica (Brescia, Lombardia)

  • Il “mistero” delle coppelle

Con coppella si intende una cavità di varie dimensioni scavata su rocce isolate, più raramente è presente nei pressi delle abitazioni, sui muretti a secco e in qualche caso direttamente sui gradini delle case contadine.

Il problema sul loro significato sviluppa la seguente domanda: le coppelle ebbero una funzione simbolica, connessa al rito e al mito, oppure svolsero un ruolo pratico ben preciso?

Inoltre, il linguaggio criptico che nasce dalla presenza di più coppelle su un identico piano, rende difficile un’interpretazione oggettiva e offre il fianco a molteplici illazioni. Illazioni che aumentano a dismisura quando le coppelle sono collegate da canaletti scavati nella roccia, dando così forma a un complesso grafico che è stato indicato come improbabile carte celeste o mappe topografica. È stata anche suggerita l’ipotesi che i grandi massi con coppelle fossero una sorta di altare destinato ai sacrifici: cavità e canaletti si sarebbero colmati con il sangue delle vittime immolate a qualche oscura divinità. Anche questa è un’interpretazione che ha pesantemente risentito dell’influenza romantica, sempre ben disposta ad ammantare con l’aura del mito i documenti archeologici meno conosciuti. È possibile che le coppelle fossero realizzate con funzione apotropaica e protettiva; al momento non vi è però un’interpretazione unica condivisa da tutti gli studiosi.

In generale gli studiosi sono concordi nell'identificare nella coppella un significato principalmente rituale e religioso; ma non mancano ipotesi tendenti a considerare le rocce con coppelle delle raffigurazione topografiche o mappali.

Vi è chi considera le coppelle una forma “secondaria” di incisione rupestre: ciò è determinato soprattutto dal fatto che queste realizzazioni risalgono anche a periodi recenti; inoltre, vi è possibile che alcune forme naturali di erosione siano confuse con le coppelle. Osservando  globalmente queste realizzazioni, constatiamo che spesso si tratta di incisioni poste in gruppo, sono infatti più rare le coppelle singole, cioè non inglobate all’interno di un complesso grafico più ampio.

L’elemento eminentemente archeologico risulta qui spesso di minore importanza rispetto a quello etno-antropologico: infatti il loro senso si inquadra all’interno di un progetto culturale per noi in gran parte sconosciuto, ma tendenzialmente ascrivibile alla sfera rituale.

Le coppelle più antiche appartengono al Musteriano e sono state ritrovate in Francia, a La Ferrassie, sulla pietra di copertura di una tomba infantile. Vi sono poi quelle che datano al massimo un secolo e sono il frutto di operazioni apotropaiche di pastori e contadini locali. Era infatti diffusa la credenza che attribuiva ai massi coppellati il ruolo di “parafulmine”: la grande e naturale scarica elettrica si sarebbe infatti abbattuta con tutta la sua forza sui massi contrassegnati da quelle incisioni, risparmiando così quanto vi era intorno.

Risulta evidente che per provare a farsi un’idea realistica del potenziale utilizzo della coppella, è necessaria un’analisi calata nelle singola realtà e non condizionata dal desiderio di giungere a una interpretazione unitaria applicabile globalmente.

Osservando in panoramica le rocce con coppelle, possiamo suggerire una prima suddivisione tipologica:

  1. coppella singola
  2. coppelle multiple (disposte senza un’apparente regola, che sembra seguire un’impostazione grafica determinata)
  3. coppelle multiple collegate con canaletti
  4. coppelle “a vaschetta” (in genere di forma rettangolare)
  5. coppelle a raggiera
  6. coppelle con annesse incisioni cruciformi
  7. coppelle associate ad altre incisioni rupestri.

 

Può capitare con frequenza di trovare coppelle su massi situati in ad aree di culto cristiano: non sempre è possibile stabilire se quelle iscrizioni sono precedenti o successive alla realizzazione del complesso religioso.

Tra i primi studi scientifici sulle coppelle va posto quello di Antonio Magni che, nel 1901 (21),affrontò sistematicamente l’argomento, cercando di gettare le basi per una prima razionale interpretazione di queste singolari incisioni rupestri.

Magni indicava come il fenomeno fosse ampiamente documentato nel tempo e nello spazio (relativamente alla quantità di siti allora noti) chiarendo: “Sono chiamate in Italia le pietre a scodelle a piacimento: pietre cupelliformi, cupellari, cupellizzate, scudellati, a bacini”. Quindi lo studioso poneva in rilievo la caratura mitica che le contrassegnava nelle varie località in cui erano presenti: “pietre dei pagani, dei druidi, delle fate, dei piccoli (anime dei morti)”.

In seguito venivano posti in rilievo i diversi significati attribuiti a queste specifiche espressioni dell’arte rupestre, significati ancora oggi spesso evocati quando si cerca di capire “che cosa intendessero dire” gli autori di quelle singolari realizzazioni:

ü  raffigurazioni di “costellazioni”

ü  carte topografiche

ü  simboli legati a culti funebri

ü  raffigurazioni di greggi

ü  raffigurazioni di gruppi familiari

ü  “prodotto dell’ozio dei popoli”.

Alcune delle ipotesi suggerite da Magni sono oggi completamente abbandonate in ambito scientifico; lo studioso poneva in rilievo un aspetto importante: la persistenza, fino a tempi recenti, di rituali della tradizione popolare europea aventi come elemento simbolico la coppella. Ciò sarebbe evidente in particolare nella documentata pratica folklorica, che prevede il riempimento di quelle cavità con olio, grasso e altri materiali infiammabili: quindi l’accensione in alcuni periodi dell’anno (in particolare in occasione della feste dedicata ai defunti).

Indubbiamente non è senza significato che in alcune culture, le coppelle abbiano mantenuto un peso rilevante nella tradizione popolare, anche se ciò non costituisce una “prova” del loro ruolo nelle culture più antiche, rappresenta comunque un indice etnografico significativo.

Se osserviamo in panoramica gli studi che direttamente o indirettamente trattano le coppelle, siamo colpiti dalla grandissima quantità di ipotesi sul loro significato e funzione, via via proposto dagli studiosi. Alcune sono chiaramente fantastiche, altre, pur partendo da una base razionale (registrazione di persone e animali) risultano difficilmente situabili in una teoria applicabile globalmente.

Se ci basiamo sugli studi scientifici a noi noti, possiamo ipotizzare due grandi ambiti interpretativi:

Ø  funzione e significato rituale

Ø  funzione atta a segnare, indicare.

Nel primo ambito possiamo solo supporre il tipo di ritualità che potrebbe aver caratterizzato quelle singolari realizzazioni nel passato remoto, anche se sono praticamente inesistenti le fonti antiche in grado di fornirci informazioni in questo senso.

Abbiamo invece testimonianze etnografiche che certificano l’inserimento della coppella (senza considerare la datazione) nella cultura popolare. In alcuni casi l’inserimento è documentato dalla toponomastica (Pietra delle fate, della strega, degli elfi, ecc.); nell’altro da tutta una serie di pratiche rituali che si esprimono con molteplici attività. Impossibile elencarle tutte, poiché assumono caratteristiche diverse in relazione all’area geografica. Si passa dalla raccolta di offerte nelle cavità litiche per celebrare festività del calendario cristiano, a pratiche superstiziose e connesse alla medicina popolare (per esempio considerare terapeutica l’acqua piovana fermatasi nella coppella).

Nel secondo ambito, la funzione della coppella è quella di indicare: i massi con queste incisioni sarebbero un sistema quasi “anagrafico”, oppure parte di un complesso più ampio che nell’insieme costituisce una sorta di mappa topografica. Indubbiamente ipotesi affascinanti, anche se difficilmente verificabili sul territorio a causa delle modificazioni subite nel tempo dall’ambiente.

Appare comunque arduo attribuire tout court di massi coppellati una funzione “topografica”; risulta ragionevole ipotizzare più di una  funzione. È altresì importante tener conto - sulla base delle ricerche condotte dagli archeologi - della possibilità di individuare una base cronologica in riferimento alla tipologia dell’incisione: “coppelle piccole, poco profonde, prive di canaletti, a sezione spesso subsonica sono frequentemente attestate in contesti di presumibile datazione al Neolitico avanzato-finale (…) mentre coppelle profonde a forte martellinatura, talvolta levigate, con sezione a U appaiono in contesti nettamente della prima età del Ferro (..) o in aree elevate di abitati della seconda età del Ferro (…) in questo caso in associazione spesso a canaletti e vaschette e per lo più con dimensioni molto larghe, sezione a spigolo vivo, forma cilindrica precisa e rifinita con un levigatolo in pietra (…) sembra evidente che la frequente attestazione delle coppelle in assenza di incisioni figurative in momenti in cui si conoscono stili definiti di arte rupestre anche nelle nostre zone, non può non essere legata ad un significato e ad un carattere particolari delle rocce a coppelle, probabilmente evolutosi nell’ampio arco di tempo in cui queste risultano attestate” (22).

                                            

                                                                                              Fenestrelle (Piemonte)

  • Alla ricerca di un senso

Cosa ci dice un’incisione rupestre? Quali erano le aspettative di chi l’ha realizzata? E ancora: in che misura il nostro concetto di “preistoria” è allineato al senso originale dato a quell’opera da chi l’aveva realizzata?

Queste sono alcune delle domande a cui cercheremo di trovare una o più risposte, provando a suggerire delle piste di lettura, non necessariamente le uniche, ma comunque utili per avvicinarsi all’argomento. Inoltre, va tenuto conto che l’apparente semplicità del significato dell’arte rupestre è problematizzata dalla notevole differenza culturale e temporale, tra chi ha realizzato l’incisione e chi la osserva. Ciò pone una seria ipoteca per la lettura dell’iconografia, anche quando è basata su una segnica elementare.

Se azzardiamo una comparazione, possiamo provare a guardare in direzione di quella cultura che generalmente definiamo “primitiva” o “selvaggia”, dove spesso le pittografie hanno una funzione mnemonica: servono, per esempio, a ricordare i canti tradizionali; ci sono culture in cui i segni possono anche interagire con le parole cantate o dette dagli sciamani all’interno del rito. Saperle decodificare corrisponde a manifestare un potere, possibilità e capacità straordinarie che sono fornite dalla comunità o dagli antenati.

All’intermo del processo esecutivo e poi interpretativo, sono almeno due le fasi fondamentali: “la prima riguarda il passaggio dalla presa di coscienza del significato di un segno, di un’orma, dell’evidenza di qualche avvenimento verificatosi, all’azione cosciente di eseguire un segno per trasmettere volontariamente un messaggio. La seconda fase riguarda il passaggio dell’esecuzione di segni le cui forme sono imposte dalla natura, a quella di segni elaborati dall’uomo, che siano essi imitazioni di realtà naturali o segni inventati” (23).

Molte di queste opere risultano spesso un vero e proprio incitamento al relativismo culturale, ponendosi come esempi particolarmente indicativi di un assunto basilare dell’antropologia culturale: “l’idea che la varietà di usi e costumi rilevati nel corso della storia e tra le differenti popolazioni non permetta di individuare un’unica scala di valori o una evoluzione lineare e necessariamente valida per tutte le società e, di conseguenza, non permetta di assegnare a una o più realtà socio-culturali una particolare importanza e rilevanza a confronto con le altre” (24).

Continuando a riferirsi ad alcuni elementi basilari dell’antropologia, possiamo osservare che per quanto riguarda l’arte rupestre, nelle sue peculiarità simboliche e anche estetiche, non vi è nulla in tale manifestazione della creatività che consenta di inserirla in modo verificabile in un ordine di tempo evoluto.

Nel nostro caso, neppure il concetto di “stile” è garanzia di originalità assoluta. Infatti, anche se questo concetto viene spesso usato arbitrariamente, nell’arte rupestre (quella cronologicamente posta dalla fine del Neolitico all’epoca moderna) lo “stile” è un valore culturale, che però non consente di definire criticamente la personalità dell’esecutore, le sue istanze e il modo in cui una certa opera era considerata dalla società (25). L’analisi è di grande interesse e si orienta soprattutto un direzione della figure antropomorfe, quelle che, per ovvi motivi, meglio si prestano ad un’analisi di tipo stilistico.

M. Baxandall, che si riferiva a un periodo più recente (XV secolo), chiariva che nell’identificazione del significato di un’opera è necessario tener conto dell’“occhio del periodo”. Con questa definizione intendeva l’esperienza culturale in base alla quale un osservatore “capisce” e interpreta una determinata opera della creatività coeva. Infatti, anche se sorretta da un apparato fisiologico comune, l’abilità visiva (di chi esegue e di chi guarda) è fortemente correlata all’esperienza di chi analizza (26).

Non dimentichiamo che le modalità dello sguardo (attività percettiva) e dell'osservazione (attività culturale), artefici dell'elaborazione e delle interpretazioni, occupano un ruolo fondamentale nella cultura occidentale contemporanea, solidamente basata sull'immagine e sulla visione. In effetti senza tecnica d'osservazione, senza strategia dell'occhio, senza prammatica della facoltà visiva, il soggetto osservato non può comparire, né divenire oggetto di conoscenza.

Se proviamo, forse un po’ arbitrariamente, a trasferire, le puntualizzazioni di Baxandall nell’ambito che qui ci interessa possiamo provvisoriamente suggerire che per mettere a fuoco il “significato” dell’arte rupestre è necessario conoscerne le tre dimensioni basilari:

·         dimensione esegetica (cosa si crede rappresenta)

·         dimensione comportamentale (l’atteggiamento di chi vive nell’area in cui è presente la testimonianza artistica)

·         dimensione vocazionale (come quell’opera è correlata all’ambiente).

 

Pur senza aver la presunzione di suggerire analisi superiori alla nostra portata, crediamo possa essere utile mettere in campo anche un aspetto più tecnico, ma sicuramente non privo di stimolanti occasioni di approfondimento. Ci riferiamo alla possibilità di “leggere” l’arte rupestre valutandone le peculiarità semiotiche.

Partiamo da un assunto semplicissimo: un’incisione o una pittura rupestre sono dei segni. Un segno è costituito da significante e significato che esprimono:

significante: piano d’espressione

significato:  piano di contenuto.

L’arte rupestre è quindi il significante, mentre ciò che rappresenta (sul piano astratto) è il significato, in parole povere: “cosa vuol dire”…

Ma ciò che dice non è solo legato al significante in sé, ma soprattutto al background culturale di chi osserva. Ne consegue quindi che un identico significante può avere diversi significati in relazione al contesto e alla cultura in cui si trova inserito. È emblematico il caso della croce: se nella tradizione cristiana quel segno contiene un significato strettamente connesso al culto, nella preistoria, o comunque in epoca precristiana, quel segno svolgeva certamente una funzione diversa: probabilmente era la schematizzazione dell’antropomorfo.

Il “segno incisione rupestre” si inserisce, “a seconda degli autori, in una serie di termini affini e dissimili: segnale, indice, icona, simbolo”  (27).

Non entriamo troppo nella questione poiché si tratta di argomento molto tecnico che impone un tipo di analisi che non può essere affrontato in queste pagine. Comunque aggiungiamo alcune riflessioni che possono essere d’aiuto a quanti, non esperti, intendano avvicinarsi all’arte rupestre, non solo con l’occhio curioso, ma anche tenendo conto dei metodi dell’antropologia applicata all’arte. Poniamo quindi in evidenza alcuni punti salienti:

segno: costituisce un’entità definita che in una cultura (sistema) secondo regole definite (codice) produce comunicazioni relazionando elementi dal piano dell’espressione (significante)  e del piano del contenuto (significato).

La precedente schematizzazione ci consente di aver le idee più chiare, perché pone in campo due parametri fondamentali (sistema e codice) che risultano determinati per condizionare il significato di un segno in relazione al contesto storico e geografico.

Risulta chiaro quindi che il rapporto tra significante e significato, quando ci si avvicina a segni culturalmente e cronologicamente lontani da chi osserva, come può verificarsi per l’arte rupestre, non possono essere valutati considerando sistemi e codici coevi all’osservatore, ma è necessario cercare, per quanto possibile, risalire a quelli della cultura del segno o del sistema di segni osservati.

Il discorso si problematizza se si tiene conto della relazione tra un significante e altri significanti, o tra un significato e altri significati. Il rapporto si definisce su due piani:

  • sintagmatico:

realizzazione del segno (combinazione di elementi culturali)

fruizione del segno (analisi degli elementi culturali)

  • paradigmatico:

realizzazione del segno (combinazione di elementi culturali)

fruizione del segno (classificazione degli elementi culturali; rinvio al sistema).

Come si noterà, nel primo caso, il segno (in preesentia) è fruito epidermicamente senza tener conto, come invece avviene nel secondo caso (in absentia), del sistema che lo regola (considerato però nella sua giusta prospettiva storica o culturale).

Senza spingersi oltre nella valutazione delle implicazioni semiotiche dell’arte rupestre, crediamo possa essere ancora utile chiarire il ruolo di alcuni termini che, in particolare quando si tratta di iconografia, ricorrono spesso: icona, indice, simbolo.

Questa le definizioni secondo G.P. Caprettini: “l’icona è un segno che è fondato anzitutto sulla similitudine tra il suo significante ed il suo significato; per esempio la rappresentazione di un animale e l’animale che si vuole rappresentare; l’indice è un segno che è fondato anzitutto sulla contiguità naturale tra il suo significante ed il suo significato; per esempio, il fumo è indice di fuoco: chiunque vede quel fumo, qualunque sia l’interpretazione di quel fumo, inferisce l’esistenza del fuoco (…) il simbolo è un segno che è fondato anzitutto sulla contiguità istituita, appresa tra significante e significato; tale connessione consiste nel fatto che essa forma una regola e non dipende dalla presenza o dall’assenza di alcuna  similitudine o contiguità di fatto di qualsiasi tipo” (28).

Se teniamo conto della teoria dell’informazione, constatiamo che l’arte rupestre risulta un sistema di comunicazione spesso ambiguo, perché in molti casi non possediamo le conoscenze  necessarie per risalire né al sistema né al codice che furono humus sul quale quel segno diffuse il proprio significato. Per fare in modo di ridurre questo rischio, possiamo avvalerci di un metodo comparativo, ma solo se calibrato sui base storico-archeologica precisa e verificata, in caso contrario il rischio è di raggiungere conclusioni del tutto prive di valore scientifico. Azzardi in questo senso sono stati condotti, in particolare in ambito etnologico, nel passato, conducendo fuori strada la ricerca antropologica per farla arenare tra le secche di un comparativismo sterile.

Al cospetto di un esempio di arte rupestre, è quindi necessario osservare il prodotto della nostra analisi da due punti di vista, archeologico e antropologico:

  •   piano archeologico:

Ø  conoscenza del sito

Ø  conoscenza tecnica del corpus iconografico

Ø  datazioni

Ø  reperti di altro tipo

Ø  fonti letterarie, orali e di altro tipo che accrescano la conoscenza del complesso

 

  • piano antropologico:

ü  descrizione dell’iconografia tenendo conto del significato dei singoli segni e delle loro relazioni

ü  riferimento ad altri complessi (di cui si possiedono conoscenze scientifiche) e/o cronologicamente affini

ü  fonti letterarie, orali e di altro tipo che consentano di conoscere il ruolo dell’opera analizzata nella cultura locale.

Attraverso un’osservazione matura e tecnica, l’arte rupestre potrà quindi restituire il proprio significato, o quantomeno offrire elementi culturali in grado di posizionarla nel giusto contesto, anche senza giungere a un unico valore, ma lasciando aperte varie piste interpretative.

In fondo, non sapremo mai che cosa pensasse l’uomo dell’Età dei Metalli che incideva una roccia: quali fossero i suoi pensieri, i suoi fini, i suoi valori. Forse aveva un ruolo simbolico anche il rumore degli strumenti che aggredivano la pietra, forse un mezzo acustico per suggerire una relazione con la divinità, o semplicemente per accentuare il senso di possesso.

Se guardiamo le cosa da questo punto di vista, l’arte rupestre diventa quasi un’“opera aperta”, espressione iconografica che si concede ad una molteplicità di interpretazioni, destinata, in alcuni casi, a delegittimare il significato primitivo di un segno o di un complesso di segni perché lascia spesso a interpretazioni svincolate da codici e sistemi originari, ma modellati su quelle proprie del fruitore. Nella sostanza, “i segni iconici non posseggono le proprietà dell’oggetto rappresentato bensì riproducono alcune condizioni della percezione comune, in base ai codici percettivi normali e selezionando quegli stimoli che – eliminati altri stimoli – mi possono permettere di costruire una struttura percettiva che possieda – in base ai codici dell’esperienza acquisita – lo stesso significato dell’esperienza denotata dal segno iconico” (29).

 

  • Sistemi culturali

La paleoantropologia sostiene che il primo sistema di comunicazione fu la parola, poi l’immagine, quindi la scrittura. La prima conquista, strettamente vincolata allo sviluppo della scatola cranica, fu la più antica: qualcuno risale indietro nel tempo, fino all’Homo abilis, due milioni di anni fa.

Poi venne l’immagine e, come sappiamo, le prime esperienze in questo senso giunte fino a noi, risalgono a 20.000 anni fa: per qualcuno quelle prime espressioni dell’arte furono l’anticamera della scrittura, per altri un ramo a sé dell’evoluzione culturale.

Intorno al 3000 a.C., nell’Egitto antico e in Mesopotamia la scrittura mosse i primi passi dando inizio ad un’autentica rivoluzione che condizionò alcuni linguaggi, come l’arte rupestre, fino ad assumere valenze sempre più specialistiche con codici selettivi.

Abbiamo quindi constatato che la questione relativa al significato di linguaggio come quello dell’arte rupestre dipende soprattutto dalla cultura, in particolare dalle problematiche che scaturiscono quando vi è differenza tra chi ha realizzato uno o più segni e chi li fruisce.

Un primo aspetto importante posto in rilievo da E.B. Tylor (1832-1917) (30) è che la cultura è presente ovunque, quindi non vi sono popoli senza cultura. Inoltre la cultura è un insieme complesso, costituito da elementi rinvenibili tra popolazioni anche molto diverse e primitive: infatti ogni popolo ha una religione, un’economia, una tecnologia. Un altro punto è determinato dalla consapevolezza che la cultura è un valore acquisito, vale a dire che non è connaturato a un gruppo etnico o, come si diceva ai tempi di Tylor, ad una “razza”. Un’osservazione conclusiva indica la cultura come il prodotto dell’acquisizione ottenuta attraverso la presenza della società: e poiché esistono tante società ognuna esprime una sua specifica cultura.

A questo punto poniamoci alcune domande: quali furono i primi contatti dell’uomo con il segno? Come vennero integrati sul piano simbolico, per esempio, le impronte di un animale, le tracce delle unghiate lasciate dagli orsi sulle pareti di una grotta? Le naturali incisioni presenti su un pezzo di legno?

Dire che tutti questi segni furono considerati simboli non ha senso, quanto meno a livello conscio. Secondo E. Anati “ vi sono due tappe da chiarire: 1. dalla constatazione all’azione; 2. dallo scrutare al creare. La prima riguarda il passaggio dallo stato di coscienza del significato di un segno, di un’orma, di un’evidenza di qualche passata azione, allo stato cosciente di eseguire un segno per volere trasmettere il messaggio. La seconda tappa riguarda il passaggio dell’esecuzione di segni le cui forme sono imposte dalla natura, a segni elaborati dall’uomo, siano essi imitazioni di realtà della natura o segni inventati. Il punto di partenza e quello di arrivo di ognuna delle due tappe possono essere anche contemporanei tra di loro ma, concettualmente, il punto di arrivo implica il passaggio dal punto di partenza” (31).

È indubbio che comprendere le fasi di queste tappe contribuisce a visualizzare su un piano concreto le origini dell’arte, definendone, per quanto possibile, il ruolo all’interno della cultura dell’uomo della preistoria.

Limitandoci a osservare esclusivamente la segnica basata sull’astrazione che è una parte fondamentale dell’arte rupestre, constatiamo che l’uomo della preistoria praticava l’astrazione probabilmente senza un progetto preciso, ma forse rispondendo a meccanismi legati agli archetipi. Ricorriamo ancora a E. Anati, nel panorama iconografico preistorico ha identificato tre categorie di segno: “Pittogrammi (e mitogrammi): figure nelle quali riteniamo di riconoscere forme identificabili con oggetti reali o immaginari, animali, uomini o cose. Ideogrammi: Segni ripetitivi e sintetici che vengono talvolta definiti come dischi, frecce, bastoncini, alberiformi, segni fallici, segni vulvari, ecc. la loro ripetitività e le loro associazioni sembrano indicare la presenza di concetti indotti e convenzionali. Psicodrammi: Segni nei quali non si riconoscono e non sembrano presentati né oggetti né simboli. Sono slanci, violente scariche di energia, che potrebbero forse esprimere sensazioni quali caldo o freddo, vita o morte, amore od odio, o anche percezioni più sottili” (32).

Non dimentichiamo inoltre che, come noi, anche l’uomo della preistoria aveva la capacità di proiettare immagini mentali sulle forme naturali: con ciò i suoi segni assumono oggi significati difficilmente individuabili e anche i tentativi in chiave psicoanalitica non possono andare oltre la semplice speculazione teorica (33)

In conclusione potremmo domandarci che cosa non dicono le immagini giunte fino a noi dalla preistoria: non è certamente una domanda oziosa, perché è proprio questa oggettiva carenza che ha spesso indotto gli storici e non fare troppo affidamento sull’immagine intesa come fonte. Si è parlato di “invisibilità del visivo” (34): e tale atteggiamento potrebbe anche sembrare adeguato guardando all’arte rupestre dove la fonte diventa traccia e l’intreccio tra il vero, il falso e il finto suggerito da C. Ginzburg (35) diventa spesso una costante: nel nostro caso avrebbe senso provare a sostituire “finto” con “mitico”.

Un esempio indicato giunge dalla copia delle pitture rupestri di Altamira (Spagna), realizzata in un’altra grotta, così da riprodurre con il massimo realismo le opere di quella che viene definita la “Cappella Sistina della preistoria”.

Copia e trasferimento si sono resi necessari per garantire la conservazioni dell’originale, che venne scoperto 1879 in una grotta nelle campagne di Santillana del Mar di Cantabria.

Il fatto in sé, encomiabile dal punto di vista della conservazione, rinfocola il mai estinto dibattito sulla copia portato alla ribalta dal filosofo Walter Benjamin con il suo famoso saggio del 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità storica.

Benjamin, nel periodo storico in cui scriveva, aveva come unico sistema riproduttivo di riferimento la fotografia, che consentiva dei risultati decisamente primitivi se paragonati a quanto è oggi possibile attraverso l'informatizzazione dell’immagine.

L’analisi del ruolo della copia nella cultura appartiene sostanzialmente all’estetica: con la copia le relazioni tra uomo e mondo acquistano una fisionomia diversa, problematizzando il dibattito ontologico tra essere ed apparire.

Il bisogno di riprodurre quanto è parte della realtà e quindi anche la natura, forse costituisce per l’uomo un mezzo per confermare la propria identità, per certificare una sorta di superiorità che l’antropocentrismo ha riconosciuto all’essere evoluto.

L’epistemologia moderna ci fa osservare che la nostra conoscenza è frutto di osservazioni oggettive e relative: conseguentemente questa conoscenza non è mai il risultato di una visione globale ma parziale.

Se, ad esempio, osserviamo la luna, possiamo affermare di vederla, anche se oggettivamente non la vediamo da tutti i punti di osservazione.

La mancanza di conoscenza globale rende la copia imprecisa e inevitabilmente, sia sul piano fisico che metafisico, non aderente alle aspettative.

Quando l’uomo cerca di riprodurre qualcosa che esiste in natura, è costretto a descrivere l’oggetto della riproduzione attraverso il contributo inevitabile della propria mente, delle sue stesse scelte inventive e anche dei materiali che intende usare, ponendosi in tal modo su un piano che, deliberatamente, è eterogeneo rispetto all’originale.

Tra il soggetto originale e la sua copia ottenuta artificialmente, dovrebbe esserci un’interfaccia di rappresentazioni culturali, atta a confermare l’autenticità del magister.

Non dimentichiamo inoltre che la copia realizzata artificialmente ha l’atavica prerogativa di portare con sé un significato diminutivo, e ciò senza dubbio ha avuto pesanti ricadute nei nostri atteggiamenti mentali, indotti a considerare la copia, automaticamente, qualcosa che appartiene ad un livello più basso, inferiore.

 

NOTE                                                                                                                               

1) A. Leroi-Gourhan, I più antichi artisti d’Europa, Milano 1980, pag. 7.

2) A. Leroi-Gourhan, a cura, Dizionario di Preistoria. Culture, vita quotidiana, metodologia, V.I, Torino 1991, pag. 497.

3) M. Centini, Alle origini dell’arte, Molfetta 2006.

4) M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1976, pagg. 222-244.

5) A. Leroi-Gourhan, La Préhistoire, Parigi 1966, pag. 158.

6) M. Eliade,op. cit., pag. 225.

7) A.M. di Nola, voce “Pietra” in Enciclopedia delle religioni, Firenze 1978 e segg.

8) B. Malinowski, Argonauti nell’Oceano occidentale, Roma 1973, pag. 122.

9) A. Beltràn, Arte rupestre preistorica, Milano 1993.

10) P. Sébillot, Riti precristiani nel folklore europeo, Milano 1990, pagg. 207-213.

11) A. Priuli, Arte rupestre, Ivrea 1996, pag. 25.

12) A. Service    J. Bradbery, I megaliti e i loro misteri, Milano 1991.

13) Un tema di grande interesse, che meriterebbe di essere approfondito, riguarda la relazione tra le incisioni rupestri, prevalentemente di età storica, e l’insediamento abitativo: si tratta di un campo della cosiddetta ecologia umana destinato a fornire degli importanti materiali di ricerca. Alcuni studi sono stati condotti da Maurizio Rossi e Paola Micheletta in tre aree piemontesi (Valle Susa / Val Sangone; Valle Orco / Val Soana; Valchiusella) che hanno condotto ad una prima indicativa serie di risultati. Dai dati raccolti si evince che, nelle tre aree, le rocce decorate sono così distribuite: 24% su pietre che fanno parte di edifici;  12% è presente sulla pavimentazione o rocce dei muretti a secco delle mulattiere; il 43% si trova nei pressi delle mulattiere; il 12% si trova all’interno degli insediamenti, ma non è parte di alcuna architettura; il 3% è completamente isolato dallo stanziamento (M. Rossi – P. Micheletta, Incisioni rupestri e insediamento: proposte di indagine, in “Ad Quintum”, N. 6, Maggio 1982, pagg. 48-60).

14) A. Arcà, a cura, La pietra e il segno, Susa 1990, pag. 19.

15) F. Boas,  Arte primitiva, Torino 1981, pag. 147.

16) A. Priuli, Il linguaggio dell’arte primitiva, Torino 2006, pagg. 17-35.

17) M. Rossi – P. Micheletta, op. cit.

18) G. Frau, Etnografia e dialettologia in alcune denominazioni della costellazione delle Pleiadi, in “Etnografia e dialettologia”, Atti del XIII Convengo per gli Studi Dialettali Italiani, Catania 28 settembre – 2 ottobre 1981, pag. 67.

19) K. Popper, Scienza e filosofia. Problemi e segni della scienza, Torino 1969, pag. 110.

20) K. Popper, op. cit., pag. 110.

21) A. Magni, Pietre cuppelliformi nuovamente scoperte nei dintorni di Como, in “Rivista Archeologica della Provincia di Como”, fasc. 43-44, 1901, pagg. 65-66.

22) F.M. Gambari, L’arte rupestre in Piemonte: cenni di analisi stilistica e cronologica, in “Notizie Archeologiche Bergomensi, N. 2, 1994, pag. 140.

23) E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità, Milano 1988, pag. 96.

24) F. Ronzon, Antropologia dell’arte, Roma 2006, pag. 23.

25) M. Shapiro, Lo stile, Roma 1995.

26) M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Torino 1972.

27) R. Barthes, Elementi di semiologia, Torino 1966, pag. 34.

28) G.P. Caprettini, La semiologia, Torino 1976, pagg. 7-8.

29) U. Eco, La struttura assente, Milano 1980, pag. 112.

30) E.B. Tylor, Il concetto di cultura, Torino 1970, pagg. 7-13.

31) E. Anati, Le radici della cultura, Milano 1992, pagg. 87-88.

32) E. Anati, op. cit., pag. 98.

33) F. Sacco – G. Sauvet, a cura, Il centro dell’uomo. Psicoanalisi e preistoria, Palermo 2005.

34) P. Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Roma 2002, pag. 11.

35) C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano 2006.

 

(Autore: Massimo Centini)

 

 

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